Ogni estate il cinema italiano si guarda allo specchio. E lo fa in un luogo preciso: Riccione. Qui tra le sale congressi e il piazzale del centro, si prova a capire se il cinema italiano esiste ancora come sistema. E se può ancora permettersi di parlare al pubblico senza sembrare un’industria disumanizzata.
Ciné – Giornate di Cinema torna per la sua 14ª edizione, e lo fa in un momento in cui le narrazioni istituzionali non bastano più. Le sale faticano, le piattaforme occupano, le produzioni rincorrono bandi. Ma a Riccione non si viene per celebrare. Si viene per tentare di resistere.
Ci saranno tutti, come ogni anno. Da Favino a Salvatores, da Edoardo Leo a Margherita Vicario. E poi Anna Foglietta, Paolo Virzì, Valerio Mastandrea. I film che vedremo in autunno iniziano a esistere qui: in uno speech, in un trailer, in una stretta di mano tra un distributore e un esercente. Ma non è questo che fa la differenza.
Il punto è capire cosa c’è dietro. E se dietro l’immagine patinata ci sia ancora uno spazio per l’autenticità, per quella sensazione di partecipare a qualcosa che sia della giusta misura” così Ciné prova a misurare le proporzioni tra industria e spettatore.
Fuori dalle sale, Ciné in Città mette in scena l’altra metà della manifestazione. Quella che si rivolge al pubblico, gratuitamente. Che porta il cinema per strada, letteralmente. In piazzale Ceccarini, ogni sera si alternano registi, attori, storie. C’è Salvatores che racconta la fragilità come motore del suo cinema. Anna Foglietta che prova a parlare della violenza di genere attraverso uno sguardo non pietistico. E c’è anche Woody Allen – o meglio, la sua ombra – con una proiezione di Vicky Cristina Barcelona che serve da omaggio e da test: capire se il pubblico di oggi ha ancora voglia di dialogare con l’idea di romanticismo borghese.
Volendo trovare una traccia di futuro, bisogna cercarla nei dettagli. Volendo, si potrebbe liquidare Ciné Camp come una sezione junior, fatta per intrattenere ragazzi tra i 10 e i 17 anni mentre i grandi parlano d’industria. Ma sarebbe un errore. Perché lì non si insegna solo a girare, scrivere o montare: si insegna a prendersi sul serio.
L’altra Riccione è quella delle sigle e dei tavoli. ANICA, ANEC, ACEC. I convegni. I premi alla memoria. I riconoscimenti alle manager invisibili. Le riflessioni sul gender gap, sulla leadership femminile, sull’intelligenza artificiale nelle sale. Tutte cose che, prese da sole, rischiano di sembrare decorazione. Ma che, nella loro somma, indicano uno scarto.
Resta l’impressione di un settore che si interroga, anche se non sa rispondere. Che mette in discussione le dinamiche dei festival più tradizionali. Che affida ancora una parte del proprio destino alla possibilità di costruire “appuntamenti attorno all’idea di comunità”.