Al Teatro India di Roma, immerso in una penombra severa, un uomo vestito solo di mutande e calzini si aggira intorno al pubblico. Ha un aspetto scomposto, il corpo inclinato, movimenti appena riconoscibili come umani. Sul palco giacciono sparsi un cappello, delle scarpe, un gilet. Quando parte la musica – “Tu vuò fa’ l’americano” – la scena si trasforma rapidamente: non è più una semplice gag né una riflessione evoluzionistica, bensì una precisa dichiarazione poetica. L’uomo cerca di vestirsi, ma ancora non sa usare bene le mani. Chiede aiuto a uno spettatore per abbottonarsi, ridendo goffamente. Poi, rivolgendosi al pubblico con marcato accento tedesco e una solennità buffa, esclama: «Illustri signori dell’Accademia… vi ringrazio per l’invito». È così che inizia Una relazione per un’accademia, debutto teatrale alla regia di Luca Marinelli, tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka, in scena fino al 30 marzo. La scimmia protagonista, Pietro il Rosso, è stata catturata in Africa durante una spedizione della ditta Hagenbeck, come racconta lei stessa, e trasportata in Europa. Durante il viaggio, per sopravvivere, ha imparato a imitare gli uomini: a parlare, stare eretta, comportarsi come loro. Cinque anni dopo viene invitata a tenere una conferenza, per spiegare la sua evoluzione o, più precisamente, la sua strategia di adattamento.
L’attore Fabian Jung, tedesco classe 1984, non parla italiano e questa barriera linguistica diventa un elemento fondamentale dello spettacolo. Marinelli ha voluto esattamente questo: una scimmia che ha imparato la lingua ma che resta sempre in ritardo rispetto al mondo che la ospita. Le parole, nello spettacolo, diventano così una forma di travestimento, un meccanismo di controllo, una nuova gabbia. Sulla scena ci sono una scala, una gabbia, una bottiglia di grappa e un proiettore, con cui Jung disegna dal vivo il ricordo della cattura: un branco, un fiume, due spari. La gabbia in cui è rinchiuso è troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per sedersi. È proprio in quello spazio innaturale che ha inizio la sua metamorfosi, non una liberazione, ma un adattamento forzato. La scimmia osserva attentamente, ancora incapace di ragionare. Guarda, studia, assorbe ogni dettaglio, riconosce i volti, i gesti ripetuti all’infinito che può imitare. Non lo fa per elevarsi moralmente o intellettualmente, bensì per sopravvivere. Sullo schermo dietro di lei appaiono tre parole scritte a mano in un italiano incerto, quasi infantile. La prima parola è “calma”: l’unica possibilità di salvezza per non impazzire nella gabbia. La seconda è “fuga”, ma è barrata come un errore, perché non c’è più un “fuori” a cui fuggire. Infine, c’è “imitare”, che non è una forma di emancipazione ma l’unica via possibile per sopravvivere in un mondo non scelto.
All’inizio del Novecento una vera scimmia chiamata Peter girò per i teatri europei: fumava, beveva birra, prendeva taxi. Kafka probabilmente la conobbe, e nel 1917 scrisse il suo racconto. Pietro il Rosso, però, non è una semplice curiosità da baraccone, bensì un enigma. Non è più scimmia né uomo, non appartiene più a nulla. Racconta di condividere il letto con una scimpanzé che di giorno non riesce nemmeno a guardare in faccia: è uscito da una gabbia per entrare in un’altra.

Lo spettacolo non rappresenta soltanto, ma costruisce un’esperienza immersiva. Jung si muove in uno spazio scenico sospeso, curato da Sander Looner, tra suoni attutiti e luci chirurgiche firmate Fabiana Piccioli. Il corpo dell’attore diventa il terreno di conflitto tra specie diverse, ruoli diversi, mondi diversi. La sua voce si incrina, si spezza, a volte sembra un uomo che imita una scimmia, altre volte il contrario.
La parabola di Pietro il Rosso è spesso interpretata come una metafora dell’assimilazione forzata: c’è chi vi legge la condizione dell’ebreo europeo, del colonizzato, del migrante o semplicemente dell’essere umano stesso. Tuttavia, “Una relazione per un’accademia” più che spiegare inquieta, destabilizzando ogni certezza. La gabbia non è soltanto una struttura fisica, ma il linguaggio stesso, l’Accademia, il teatro. E la libertà, quindi? Soltanto un’illusione o, peggio ancora, un premio di consolazione.