C’è una donna che ha centonove anni, si mette lo smalto, ascolta la musica dalla strada e canta. E poi c’è una casa bassa, al piano terra, con la porta sempre aperta. Dentro, non c’è molto spazio. Ma ci sono le voci. Tante. Quelle di chi è rimasto fermo per una vita intera, eppure ha viaggiato molto più di noi. È da lì che nasce Felicissima jurnata, lo spettacolo della compagnia Putéca Celidònia, in scena dal 13 al 18 maggio al Teatro Vascello di Roma. Un’opera che non grida, non commuove per mestiere, ma fa ascoltare — ed è molto più difficile. Questo spettacolo nasce da una volontà incrollabile che scava nella marginalità, nelle stanze basse del Rione Sanità, per tirarne fuori non pietà, ma potenza.
Antonella Morea e Dario Rea sono in scena, ma non sono soli. Parlano con le voci vere degli abitanti del quartiere. Sono Assunta, Pasqualotto, Angela. Sono persone che non hanno mai preso un treno. Che non sanno chi sia Beckett, eppure lo incarnano meglio di chiunque. Il testo di Emanuele D’Errico, scritto dopo anni di immersione tra quei vicoli, non è un copione, è una trascrizione poetica della realtà.
Felicissima jurnata è il giorno felice di chi resta, di chi resiste in silenzio, di chi ha trasformato la prigione domestica in un modo per non svanire. È un Beckett a piedi scalzi nei vicoli di Napoli. Il corpo di una città che si muove poco, ma pensa molto. Che canta, anche quando dovrebbe urlare.
Il collettivo Putéca Celidònia, nato nel 2018 tra due “bassi” confiscati alla camorra, ha scelto di stare lì dove la cultura si fa necessità, e non consumo. Hanno iniziato coi corsi gratuiti di teatro, sartoria, scenografia, e con progetti come Dimenticati a Distanza, Segui la voce, A voce d’‘o vico. Il teatro è diventato un modo per restare umani. Non un’arte, ma una forma di ascolto.
Lo spettacolo si propone come uno specchio capovolto dell’Occidente che corre: riflette le crepe, ma le fa cantare. Fa sentire i vuoti, ma li riempie di storie vere. E in tempi in cui tutto tende al rumore, questo spettacolo è un gesto politico: scegliere il silenzio profondo di chi non ha mai avuto voce, e affidargli la scena.