Caro Kim, m’hai fregato un’altra volta.
Perché con il nuovo film “Brado” di Kim Rossi Stuart, nonostante il solito inizio in cui non riesco ad avere nessuna empatia con i tuoi personaggi, poi finisco per emozionarmi. E, allo stesso tempo, ad “odiarti” (in senso cinematografico, sia chiaro).
Questa volta – che ritorni alla regia, dopo “Anche libero va bene” e “Tommaso” (e senza aspettare i fatidici dieci anni) – mi hai fatto galoppare chilometri con l’ombroso cavallo Trevor, amare ogni singolo cucciolo di quella cagnolina (anche se il secchio no, non te lo perdono!), mi hai fatto respirare ogni ansimo, mangiare da ogni scatoletta, soffrire la tua brutale e crudele versione della vita e sognare. Si, cavolo, mi hai fatto perfino sognare che il riscatto sociale arrivasse quando lo volevo io e non come lo ha stabilito la sceneggiatura – che poi è tratta proprio da un racconto (“La lotta“) del tuo libro che, guarda caso hai chiamato “Le guarigioni” -, desiderando che quel “figlio di p*****a” di cui tu racconti trovasse quella serenità che ogni ragazzo si merita, a prescindere dall’essere un “bel maschietto” e senza per forza diventare quello che non è per amare e farsi amare da qualcuno, fosse perfino un povero (ultimo) diavolo.
Mi sono lasciato coinvolgere così tanto da soffrire per le parole, quelle dette a voler ferire da parte di chi ferito lo è già, quelle sussurrate con mani preganti, quelle che avrei sperato di sentire e non ho ascoltato.
Per questo ti ho “odiato”: perchè quando ero piccolo sono stato dalla parte di Ettore contro Achille e ho sempre amato le cucciolate e sperato che la nave dei Malavoglia arrivasse in porto e, dunque, inevitabilmente anche questa volta mi hai fatto schierare con quelli che “ripartono da zero”.
Le tue anime (dannate e non) le ho riconosciute in ogni personaggio: nel cowboy onnipotente Renato (che tu stesso interpreti, nell’intensità di Tommaso (l’ottimo, davvero, Saul Nanni da cui, sono certo, hai preteso parecchio) perfino nel cavallo pazzo Trevor (perché c’è del tuo anche in lui, vero?), nell’assenza/presenza della moglie (Barbara Bobulova) o, addirittura, nelle personalità delle due ragazze (l’amazzone Viola Sofia Betti e Alma Noce) o della sorella in sottofondo (Federica Pocaterra); così come nella forza di quegli abbracci, nella solitudine, nei riferimenti a Medjugorje o in quella sorta di espiazione che può abbracciare i padri e i figli, così come nelle parole della ‘sera della caduta’. Tutto condensato, non a caso, nel termine Brado, che è il titolo del film ed uno stato di natura. E i risultati sono lì.
Certo, questa dovrebbe essere una recensione e, messa così, diventa una sorta di atto d’amore. Ma non posso farci nulla, perché questi stramaledetti film che fai restano in petto, come le inquadrature dal basso, i milioni di stelle che, nella pellicola, osservano da lassù il movimento delle persone e della storia (che ho omesso di raccontare per scelta), come i pali marciti delle staccionate, come quelle albe dove non cantano i galli ma che restano belle da impazzirci.
E ogni volta è un pugno nello stomaco. Uno schiaffo di quella realtà che tu proietti e che non vorrei mai vedere ma che poi, inevitabilmente, entra dentro.
E ti riscopri di nuovo figlio, padre, sognatore e perdente. E ritrovi la vita, tanto da dover fare un respirone immenso uscendo dalla sala e, perfino, accettare che sul viso è apparsa una lacrima.
Dicono che questo sia il modo di fare, sentire, il cinema.
E tu, magari con il tuo dannato eclettismo direbbero i detrattori, lo sai.
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Ps: Kim un’ultima cosa: mi giuri che “Quell’ultimo sguardo li ripagò di tutta la sofferenza vissuta”?
Il nuovo film di Kim Rossi Stuart, Brado, nelle sale cinematografiche dal 20 ottobre