Coraggioso, irriverente, ribelle, straordinario, geniale, maleducato, depresso, sfacciato, commovente, solitario. Lee Alexander McQueen era questo e anche molto di più. L’inglese ha un’espressione meravigliosa per definire certi personaggi che è “larger than life”, ovvero più grande della vita stessa.
Quando si chiude l’incredibile – per dovizia di dettagli e filmati d’archivio – documentario di Ian Bonhote e Peter Ettedgui, in arrivo nella sale solo dal 10 al 13 marzo distribuito da Iwonderpictures la sensazione è di aver assistito a qualcosa fuori da questo mondo. La vita e poi la tragica e prematura scomparsa di questo ragazzo inglese proveniente dalla più tradizionale middle working class londinese, mi hanno ricordato Yayoi Kusama e Francesca Woodman, la fotografa morta suicida appena 22enne. Dei geni assoluti alle prese con i loro demoni, che hanno il coraggio di guardarli in faccia ed affrontarli trasformandoli in arte assoluta, visionaria, immaginifica.
“Voglio andare nel profondo del mio lato oscuro – disse McQueen – e tirare fuori questi orrrori dalla mia anima mettendoli in passerella. E’ come esorcizzare i mie fantasmi, gli show che faccio parlano di quello che è sepolto nella mia psiche. E alla fine della fiera ogni stilista vuole creare un’illusione, un qualcosa che disturbi la gente”
Ragazzo curioso e affamato di vita, di celebrità e soldi, ma soprattutto abitato da un genio forse mai più visto nel mondo della moda. A lui si devono creazioni impossibili, passerelle e show che sono dei veri e propri coup de theatre, uno svecchiamento e un ribaltamento del concetto di abito e stile che ha segnato e svoltato un’epoca.
“I miei show mostrano sesso, droga e rock’n’roll. Devi divertirti e aver la pelle d’oca, voglio infarti e ambulanze”, dichiarava. Attraverso cinque delle sue più iconiche collezioni impariamo a conoscere questo incredibile e talentuoso ragazzo, dichiaratosi quasi subito omosessuale, cresciuto senza un’educazione formale ma una curiosità famelica, coraggioso come pochi ma anche incredibilmente romantico, legatissimo ai suoi affetti più cari come la mamma Joyce, il nipote Gary, l’amica di una vita Isabella Blow e i suoi due cani, spesso in passerella con lui alla fine degli show. Proprio la Blow segnerà la svolta della carriera di Lee quando al termine della sua prima collezione, ovvero “Jack the Ripper Stalks His Victims” del 1992, comprerà tutti i vestiti dichiarando di non aver mai visto nulla di simile.
Da umile garzone di sartoria in Savile Row McQueen diventa in pochissimi anni stilista di Givenchy e poi a capo di un impero da 50 milioni di dollari. Responsabilità, difficoltà, droga, solitudine. “It’s a jungle out there” – “E’ una giungla, là fuori” dichiara un malinconico e realista McQueen. E Sebastien Pons, l’amico e assistente di una vita gli fa eco dicendo che la moda “it’s a pile of crap”, una montagna di stronzate.
In un mondo di estetica effimera e bellezza passeggera il rotondetto McQueen si sottopone addirittura ad una liposuzione. Credendo ingenuamente nell’equazione magrezza=felicità, si ritrova invece in quella spirale negativa fatte di abusi di sostanze, di notti insonne, di dolori improvvisi come quello dell’amica Isabella che muore suicida e della madre Joyce che si spegne a causa di un’insufficienza renale.
“Sembro triste a volte, lo sono infatti, ma non sono amareggiato. Sono grato per tutto quello che ho avuto dalla vita ma so anche quando è il momento di sparire”. Così dichiara a Pons che durante il suo ultimo show si sparerà alla testa, “uscirò in passerella alla fine e mi sparerò”. Il proposito gli viene impedito dalla madre, ma l’idea ormai gli si è impiantata dentro. Non si sparerà alla fine di “Plato’s Atlantis”, ma si impiccherà nel buio della sua casa qualche giorno dopo la morte della madre.
“Take care of my dogs, I love you. Lee” – “prendetevi cura dei miei cani, vi amo, Lee”. Questo è quanto lascia scritto sul tavolo.
Giusto così. I miti nella storia, sono sempre usciti di scena in modo eroico, imperiale o tragico, già presagendo il futuro non sinfonico. La fine è amara e solitaria, un’uscita di scena inaspettata ma programmata come forse quelle di Amy Winehouse o Heath Ledger. All’apice del successo e della fama, sei, comunque, solo.
Elena è giornalista dal 1994 e vegana dal 2011.
Si occupa di vita in generale, cinema, arte, tennis, diritti degli animali. Quando non è al cinema è in viaggio. Spesso la cosa coincide.
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