Dopo Reality (2012), Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (2013) e Il cielo non è un fondale (2016), il duo Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, s’ispirano a uno dei capolavori del cinema italiano, Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni, per proseguire la loro ricerca intorno alla condizione di “marginalità” quale chiave di lettura del nostro presente e forma di resistenza “in sottrazione”.
«Nel film abbiamo riscontrato lo stesso disagio esistenziale che viviamo noi oggi, la stessa fatica a stare ‘dentro la realtà’. Una delle domande da cui siamo partiti è stata: quali parti di me, della mia natura, metto a tacere ogni giorno, cosa comprimo ‘per essere come gli altri’?» hanno spiegato i due artisti. Ma è in Giuliana, protagonista de Il Deserto Rosso, interpretata da una magnifica Monica Vitti, che Deflorian e Tagliarini trovano incarnate tutte le domande che nutrono Quasi Niente. «Giuliana è una donna borghese ma è anche una ‘selvatica vestita bene’ ed è proprio in questo senso che, alla fine, non rappresenta nulla: chiamata a rappresentare la borghesia, (poiché l’identità borghese è uno dei grandi temi del cinema dell’epoca) finisce per eccedere le rappresentazioni, comprese quelle ideologiche o sociologiche. È un punto di fuga. C’è un momento del film in cui dice: “Cosa devono guardare i miei occhi?” È una domanda etico-politica e allo stesso tempo esistenziale; probabilmente è anche ‘la’ domanda che nutre il cinema. Una domanda che il teatro non può far altro che spostare su una soglia, quella tra quello che si vede e quello che non si vede. Laddove ci viene chiesto in continuazione di scegliere, di guarire, di essere capaci Giuliana ci mostra la bellezza della condizione opposta. Rende grazia alle ombre, alla sconfinata interiorità del nostro disagio».
Così scena e drammaturgia si costruiscono come uno spazio aperto, cerniera tra il “dentro” e “fuori”, tra l’immagine e il reale in essa sotteso. Se sullo sfondo citazioni da Il Deserto Rosso sembrano emergere sfocate, come suggestioni di un altro tempo e di un’altra storia, le parole di Daria e Antonio, quelle dell’attrice Monica Piseddu, del performer Benno Steinegger, e della cantante Francesca Cuttica (in scena al loro fianco) ci raccontano della nostra quotidianità, di qualcosa di estremamente familiare perché ancorato al nostro presente.
Il duo approfondisce così la propria riflessione sul significato stesso del teatro e sul ruolo dell’attore. In scena, continuano ancora Daria e Antonio «siamo continuamente presenti dietro le figure. Figure che s’interrogano sul fare commedia della vita, o sul farne sempre un dramma, che sentono la fatica della propria facciata sociale, cercano in continuazione un’intimità, consapevoli della contraddizione di farlo di fronte a un pubblico che le guarda».
Parole, urla liberatorie, immagini, gesti di follia improvvisa o la poesia di una canzone pop ci parlano del disagio, della fragilità, delle crepe del reale, di una storia che nessuno sembra più voler ascoltare e che spetta al teatro, con il suo “impotente fantasticare”, portare ancora una volta in scena.