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A Venezia 75 l’America razzista nel film di Roberto Minervini

Imma Tuccillo Castaldo by Imma Tuccillo Castaldo
3 Settembre 2018
in Cinema
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A Venezia 75 l’America razzista nel film di Roberto Minervini
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Nel giorno in cui si è spento il genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, lo studioso italiano che ha sostanzialmente dimostrato l’inesistenza delle razze, attraverso studi sul patrimonio genetico dell’uomo dai quali si evidenziano piuttosto i segni dei movimenti migratori del passato e delle società multietniche, Roberto Minervini presenta in concorso a Venezia il suo ultimo film. Quello di Minervini è un film dal titolo impegnativo: What you gonna do when the world’s on fire? (Che fare quando il mondo è in fiamme?). Già che si fa? Cosa fa ciascun soggetto là dove cosciente di un mondo che arde di caos provocando dolore? La domanda, in realtà, Minervini la pone prima di tutto a se stesso, poi la condivide con il ‘noi’ pubblico presentandoci il frutto della sua ponderata riflessione. La risposta, affatto risolutiva, è fatta di immagini e di immersione nella realtà rovesciata del sogno americano letto in bianco e nero, come a voler agganciare lo sguardo dello spettatore e ‘costringerlo’ a guardare gli ‘attori reali’ per ascoltare, senza distrazioni, cosa hanno da raccontare a proposito dello scontro in USA tra comunità, bianca e non bianca, su base razziale. Questo l’imperativo. Più nel dettaglio, Minervini accende i riflettori sulla contemporanea condizione della comunità afro-americana e l’escalation di violenza razziale che ha sconvolto l’America a partire dall’omicidio del 37enne Alton Sterling a Baton Rouge, in Lousiana.

da sinistra:Ronaldo King,Titus Turner, Roberto Minervini, Judy Hill, Kevin Goodman. (mini press meeting at Lexus Lounge, Lido di Venezia) ph:immatuccillocastaldo

Qualcuno potrebbe storcere il naso. La più facile delle critiche da muovere a Minervini è quella di presentare un film che gioca facile a far presa su di un certo tipo di pubblico. In fondo l’America, da un paio di anni, ci viene raccontata dai media filtrata dall’immagine del 45° presidente, non proprio un campione di simpatia quel Donald Trump. Da subito ha perso il confronto con il suo charmant predecessore; anche i suoi ammiratori non lo citano certo per la sua brillantezza a video, piuttosto perché interprete del ruolo da leader nazionalista bianco, la cui ignoranza serve la causa della cattiva fede degli omologhi europei e dei loro sostenitori. Anche qui in Italia.

Judy Hill ph:immatuccillocastaldo

Eppure Judy Hill, Dorothy Hill, Michael Nelson, Ronaldo King, Titus Turner, Ashlei King, Kevin Goodman, Krystal Muhammad, Kevin Bush ci raccontano non delle storie, ma la loro storia e a dire il vero nemmeno ce la raccontano, semplicemente la vivono e la camera di Minervini sono i nostri occhi; sono i suoi occhi che vogliono per forza vedere, vedere con ‘noi’ quello che c’è da vedere per non restare distratti o distanti dopo la sbornia di festa.

Sta tutto in questo meticoloso osservare, annotare, registrare, da etnologo di altri tempi, il merito del regista originario di Fermo. Il razzismo, la condizione degli afro-americani, così come quella di altre comunità non bianche, soprattutto la percezione che di questi gruppi si ha, al di là della stessa nuda e cruda conta di afro-americani morti ammazzati per mano della polizia o per mano di membri dell’ultra destra statunitense, non sono contenitori concettuali, ma modificatori strutturali degli eventi che incidono direttamente sullo stesso quotidiano ritmo di vita, da secoli, da quando sei piccolo, sia tu nero se sei la vittima potenziale, sia tu bianco se sei il boia potenziale, ti entra nel sangue e si fa patrimonio genetico e peso della memoria collettiva.

Sono modificatori strutturali della realtà, dicevamo, che segnano e sedimentano la memoria collettiva di un gruppo rispetto ad un altro. Parlare di razze, di scontro razziale, di razzismo non è quindi superfluo, anacronistico, alla luce di dinamiche macroeconomiche che hanno polarizzato lo scontro globale tra un’umanità di sotto ed un èlite ingorda in bisogno di conflittualità per generare competizione, tra le genti, sempre al ribasso. Riportare l’attenzione sull’odio generato da ideologie razziste significa affermare che i regimi democratici, quello americano (ma quello europeo non di meno), resistono, in cattiva coscienza, di facciata. La giuridificazione di un diritto, la non distinzione di razza, non ha presa sulla quotidianità di chi rischia vita e sogni, per il colore ‘sbagliato’ della pelle: politiche discriminatorie e crimini motivati dall’odio sono in aumento in Usa da tempo. In Europa si viaggia a velocità costante verso lo stesso inferno, ben venga quindi un film come quello di Minervini: spenti i riflettori del Festival, il dibattito sia quindi accanito.

 

 

 

 

 

Tags: cinemadirittiPantere nererazzismoRoberto MinerviniVenezia 75
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