Ocean’s 8, nelle sale dal 26 luglio, non funziona a causa del pigro storytelling di Gary Ross, della mancanza di immaginazione e del ritmo glaciale del film. Nonostante abbia messo insieme otto delle donne più potenti di Hollywood come Sandra Bullock, Anne Hathaway e Cate Blanchett e star come Rihanna, Helena Bonham Carter e Mindy Kaling, il regista e sceneggiatore statunitense di Hunger Games non riesce a consegnare un heist movie per lo meno decente.
Bullock interpreta la sorella di Danny Ocean ( George Clooney nelle prime tre edizioni della celebre saga di Ocean’s Eleven) che viene rilasciata in libertà condizionata dopo cinque anni di prigione. Dopo aver promesso di comportarsi al meglio, una volta fuori, fa esattamente l’opposto. Il film ci sorprende con un medley di cinque minuti dove attraverso trucchetti truffaldini prevedibili ed inverosimili, Bullock ci fa sapere che intende tornare a fare quello che le riesce meglio:rubare.
Ha passato gli anni in prigione a progettare nei minimi dettagli un colpo perfetto e milionario: sottrarre una collana di diamanti durante l’evento più glamour del mondo, secondo solo al red carpet degli Oscar, il Met Gala. Il prestigioso gioiello adornerà il collo della mocciosa narcisista Anne Hathaway.
Per riuscirci, Bullock riunisce un gruppo di otto personaggi unidimensionali, hacker, borseggiatrici, truffatrici, ricettatrici, interpretati da attrici che meritavano un destino migliore. Durante l’esecuzione del loro piano, si trovano ad affrontare sfide insignificanti. Non c’è nulla di memorabile, al di là del fascino delle protagoniste che sf0ggiano abiti fantastici e giocherellano l’una con l’altra. La trama non è quel meccanismo complesso e ben oleato di tecnica della stratificazione che nei migliori gangster movie prosegue fino alla fine con esaltante vivacità e che culmina nel sorprendente finale di un’opera ben orchestrata.
Si ha insomma la sensazione di trovarsi nella serie Sex and the City. Ocean’s 8 diventa la parodia di un gangester movie fino a ibridarsi e anche dissolversi dentro quel frullatore di citazionismo che è il cinema post-moderno.
Ciò che risulta maggiormente degno di nota, è la performance esagerata di Anne Hathaway, perfetta nei panni di un’egotica diva mentre spara falsi sorrisi ai Gala, svenimenti su gioielli, urla e grida per un vestito che non si adatta alle sue forme. Ma è il trattamento riservato a Cate Blanchett quello che fa più male perché non c’è niente che vada oltre il suo corpo perfettamente a proprio agio in abiti eleganti. Alla fine del film, la seguiamo con sguardo mesto mentre si allontana in moto verso il tramonto mentre ci chiediamo cosa ne farà della sua parte del bottino.
Si esce dal film con la convinzione che nel prossimo futuro ci aspettano diversi reboot al femminile di film famosi girati da registi uomini. A parte un breve scambio in cui la Bullock chiarisce perchè non vuole uomini nella squadra, ci troviamo di fronte ad un’operazione misogina che getta una luce sinistra su #MeToo e Time’s Up, due movimenti contro gli abusi sessuali che si stanno trasformando in una bandiera per un femminismo da Instagram.