Al Brancaccio, dal 2 al 4 ottobre, arriva Giovanni Scifoni con Fra’, un monologo che promette di rovesciare l’immagine consunta di San Francesco. Niente santini polverosi o oleografie da catechismo: qui si parla del Poverello come della prima, vera, rockstar della storia.
D’altronde, se chiedi a un ateo convinto quale santo gli stia simpatico, la risposta è quasi sempre la stessa: Francesco. Perché? Non era l’unico a predicare la povertà radicale, né l’unico a ribellarsi a una Chiesa ingessata. Eppure il figlio del mercante di stoffe d’Assisi – “mezzo frikkettone e mezzo coatto di periferia”, dice Scifoni – resta l’icona che attraversa i secoli, capace di parlare agli eretici come ai papi, agli hipster come ai devoti.
Il segreto? Era un artista. Uno che sapeva trasformare la predicazione in performance: improvvisazioni in francese, citazioni stravolte dalle chansons de geste, uso del corpo, del nudo, perfino della malattia. In tempi senza social, Francesco inventava happening da migliaia di follower in piazza. E nel 1223 si inventò pure il presepe di Greccio, un’idea talmente geniale da diventare virale nei secoli – senza bisogno di Siae.
Scifoni – attore che conosce bene la miscela di comicità e poesia – porta in scena questo Francesco con le musiche dal vivo di Luciano Di Giandomenico e i suoi strumenti antichi. Ne viene fuori un viaggio che passa dalla predica ai porci al Cantico delle creature, fino al finale inevitabile: la morte, affrontata come “Sora nostra”, sorella amata e accettata. Un tabù che lo spettacolo sbatte in faccia anche al pubblico, incatenato alle poltrone del Brancaccio.
In fondo, il vero problema per Scifoni non è mettere in scena un santo. È competere con un attore imbattibile: Francesco d’Assisi, performer assoluto, capace di far ridere, piangere, cantare e ballare intere folle.