Nel nuovo adattamento di The Running Man, Edgar Wright affronta uno dei racconti più cupi e distanti dal suo immaginario più riconoscibile. Il risultato è un film che corre su due binari: quello della caccia spettacolarizzata – costruita per il pubblico del futuro – e quello del dubbio che cresce scena dopo scena, quando il protagonista capisce che il gioco a cui ha scelto di partecipare non è solo intrattenimento, ma un sistema che divora verità, persone e coscienza.
Con un runtime di 2 ore e 13 minuti, il film adatta il romanzo di Stephen King in chiave più ampia, meno claustrofobica, e soprattutto più consapevole dei meccanismi mediatici che determinano il destino dei concorrenti.
Un mondo che corre più veloce dell’uomo
Ben Richards, interpretato da un Glen Powell sorprendentemente cupo, accetta di partecipare a The Running Man per garantire un futuro migliore alla sua famiglia. Il suo ingresso nel gioco – una caccia all’uomo estesa a tutto il Paese, dove deve sopravvivere un mese intero mentre cacciatori addestrati e perfino cittadini comuni possono eliminarlo – è dipinto non come un gesto eroico, ma come una scelta disperata, obbligata.
Powell porta sullo schermo una versione di Richards che non rinuncia alla sua ironia naturale, ma la tiene sotto controllo, lasciando che sia la paura – e un senso crescente di sospetto – a guidare il personaggio. Più il protagonista corre, più capisce che lo show nasconde molto più di quanto il pubblico creda. Ed è proprio questa scoperta graduale che dà al film la sua tensione più profonda.
Un film che sceglie di rallentare per osservare
Contrariamente a quanto il titolo suggerisce, The Running Man non è il film più frenetico di Edgar Wright. Anzi: spesso rallenta, cambia ritmo, quasi consapevole dei momenti in cui la sua stessa corsa rischia di perdere slancio.
L’ultimo terzo della storia – montato in sequenze veloci al limite del collage narrativo – sarà interpretato da alcuni come un colpo di genio, da altri come una scorciatoia, ma è una scelta chiaramente voluta: la realtà del gioco accelera, mentre la consapevolezza di Richards diventa più lenta, più dolorosa.
Questa “stanchezza” formale non è un limite, ma un modo per tradurre la struttura del romanzo in immagini: nel momento in cui Richards capisce cosa accade dietro le quinte, anche il film sembra prendere fiato.
La caccia al cuore del film: quando Wright ritrova il suo ritmo
Quando il film torna a concentrarsi sul fulcro della sua premessa – la fuga – emergono due delle sequenze più riuscite.
In una, Richards si trova costretto a improvvisare dopo l’arrivo inatteso di un gruppo di cacciatori: Wright utilizza movimenti di camera fluidi, angolazioni strette, transizioni precise. Nell’altra, Michael Cera mette in scena una serie di trappole che diventano una coreografia di tensione e humour nero, mostrando il lato più creativo e imprevedibile dell’opera.
Qui riaffiorano le radici del regista: non i suoi frenetici montaggi iconici, ma un controllo del ritmo che sa essere elegante senza perdere energia.
Una produzione più “di studio” che personale
Pur mantenendo alcuni tratti stilistici distintivi, The Running Man sembra un film in cui Wright dialoga molto più apertamente con la macchina narrativa dello studio che lo produce. Non c’è l’irriverenza di Scott Pilgrim, né l’impatto sonoro di Baby Driver; c’è piuttosto la volontà di costruire una struttura più ampia, più “mainstream”, ma senza rinunciare del tutto al suo sguardo.
Le scelte musicali – poche ma molto calibrate – sostengono l’azione in modo sottile, senza rubare la scena.
I limiti di scrittura emergono nei personaggi femminili
La sceneggiatura, firmata da Wright insieme a Michael Bacall, inciampa laddove spesso il regista è stato criticato: nella costruzione dei personaggi femminili.
La moglie di Richards rimane quasi invisibile per gran parte del film, nonostante i tentativi di inserirla come motore emotivo della storia.
Quando Emilia Jones entra in scena nei panni di una giovane ostaggio, il film sembra ritrovare un personaggio femminile con potenziale, ma la scrittura non le concede lo spazio necessario per emergere davvero.
Sono scelte narrative che appaiono soprattutto nel secondo atto, quando il film rallenta e i rapporti tra i personaggi dovrebbero invece intensificarsi.
Eppure la corsa continua – e trascina con sé lo spettatore
Nonostante i suoi squilibri, The Running Man mantiene una tensione di fondo difficile da ignorare.
Powell regge il film con naturale carisma, e il coro del pubblico che segue lo show – quel “Richards Lives!” ripetuto come un mantra – diventa il simbolo di un mondo che guarda, giudica, ma non capisce.
Questa nuova versione si allontana dall’adattamento con Arnold Schwarzenegger del 1987, optando per un panorama più aperto e per una riflessione più sottile sul potere dei media e sulla spettacolarizzazione della violenza.
È un film che corre, inciampa, rallenta, esplode improvvisamente e poi riprende il fiato. Un gioco di sopravvivenza morale prima ancora che fisica.
Ed è proprio in questo equilibrio instabile che Edgar Wright trova il modo di dare nuova vita a una storia che, oggi più che mai, risuona con un mondo che confonde intrattenimento e verità.

















