In Mi manca Van Gogh, Francesca Astrei porta in scena un monologo che nasce da un incontro inatteso: quello tra la biografia inquieta di Van Gogh e la storia di una ragazza che vive nel nostro presente.
Due linee lontane che finiscono per toccarsi dentro la mente di una guida museale, mentre commenta un dipinto. Basta una parola sbagliata, o forse una giusta, perché il quadro smetta di essere solo un quadro e diventi un varco.
La vita del pittore affiora come una memoria che non appartiene a nessuno, mentre la figura di Michela, amica d’infanzia della narratrice, torna a reclamare spazio: una ragazza travolta dalla diffusione non consensuale di materiale intimo, una di quelle storie che possono cominciare in una stanza qualsiasi e finire ovunque.
Lo spettacolo non accosta le due vicende per somiglianza, ma per frattura: ciò che rimane quando la società decide di definire qualcuno prima ancora di ascoltarlo.
Attraverso il flusso della narratrice emergono domande sul giudizio, sulla vulnerabilità, sulla responsabilità di chi resta a guardare. Il museo diventa il luogo in cui passato e presente si rispecchiano, e la voce della guida si trasforma in un tentativo di rimettere in ordine ciò che l’esperienza ha sparpagliato: ricordi, paure, colpe che non hanno un nome preciso.
Il monologo nasce da un fatto reale accaduto in Italia nel 2017, uno dei casi che hanno reso evidente l’impatto devastante del revenge porn. Da qui parte il lavoro di Astrei: non una cronaca, ma un’indagine intima su ciò che accade quando la fragilità viene esposta allo sguardo degli altri.
In questo attraversamento, Van Gogh non è il protagonista, ma una presenza che accompagna: un punto di luce che continua a pulsare anche quando il buio incombe.
Mi manca Van Gogh è quindi un racconto sospeso tra arte e ferite contemporanee, un tentativo di nominare ciò che spesso resta taciuto e di lasciare nello spettatore una domanda più che una risposta.

















