Ho amato le prime scene di Him, al cinema dal 1 ottobre. L’apertura mi ha fatto credere, per un attimo, che Justin Tipping stesse davvero per consegnarci un grande film sul football, sulla fede e sull’ossessione americana per lo spettacolo. Quelle inquadrature intrise di rosso, bianco e blu, la famiglia riunita davanti a un altare improvvisato per venerare un quarterback, il giovane Cam Cade che sogna di entrare nella storia — tutto mi è sembrato inquietante e promettente.
Il motto che accompagna la pellicola è semplice: “God, family, football” è un credo nazionale. Tipping scava in questo mantra con l’intenzione di mostrarne il lato più oscuro, come se il football potesse diventare una liturgia moderna, con i suoi idoli, i suoi sacrifici e i suoi riti. Ma il risultato, pur affascinante a tratti, non riesce mai a trovare un vero nucleo di significato.
La parabola del giovane Cam Cade (interpretato con energia da Tyriq Withers) è quella del discepolo che incontra il suo profeta: Isaiah White, quarterback leggendario dei San Antonio Saviors, una squadra che già dal nome porta il peso della simbologia religiosa. Marlon Wayans gli dà corpo e volto, costruendo una figura carismatica e ambigua, un leader spirituale che trasforma il suo campo di addestramento in una chiesa sotterranea, piena di prove mistiche e sadiche.
Qui il film che ha alle spalle la prosuzione di Jordan Peele, prende una piega allucinata, frammentata, quasi lisergica. Tipping affida molto alle immagini — palloni da football che fluttuano come reliquie maledette, tifosi mascherati da creature demoniache — e meno alle parole. Ma proprio questo affidarsi al simbolo lo tradisce: le allusioni bibliche (come la ricostruzione dell’Ultima Cena) sono così esplicite da non lasciare spazio a interpretazioni. Lo spettatore viene preso per mano, quando sarebbe stato più interessante essere lasciato smarrito.

Eppure qualcosa resta. La tensione tra fede e football, tra culto e sport, non è mai davvero risolta, ma aleggia sopra ogni scena. È un film che vuole essere horror ma non spaventa, a volte diverte con improvvisi lampi di ironia che spezzano il tono serioso e ricordano quanto Tipping sappia orchestrare momenti più leggeri.
Gli attori fanno il possibile con il materiale a disposizione. Wayans è magnetico, sempre in bilico tra santone e psicopatico. Withers riesce a rendere credibile la metamorfosi di Cade, dall’idolatria cieca alla consapevolezza che forse non tutto può essere sacrificato per la gloria. Il loro duello è il cuore pulsante del film, anche quando la sceneggiatura si disperde.
Il terzo atto implode in un caos che smonta le premesse e si chiude con un finale che sembra recitare a voce alta la morale invece di lasciarcela intuire. La domanda — fino a che punto siamo disposti a spingerci per diventare i più grandi — viene posta con forza, ma le risposte su fede, famiglia e sacrificio restano sospese, incomplete, quasi dimenticate.
Quello che rimane è l’idea di un film che poteva essere molto più grande di ciò che è: un horror sul football che, invece di mostrarci l’orrore della cultura che divinizza lo sport, si perde tra simbolismi e immagini spettacolari.