Il 21 settembre all’Arena di Verona Gianna Nannini ha chiuso un tour di più di trenta date tra Italia, Germania e Svizzera davanti a centocinquantamila persone complessive. La scena si apre con lei che entra quasi di corsa, chitarra in spalla, e attacca Sei nell’anima: seduta sul bordo del palco, poi in piedi, poi a scalciare, come per liberare ogni residuo di energia di un anno intero.
In scaletta ci sono tutti i classici: America, Fotoromanza, Bello e impossibile, Meravigliosa creatura. Un concerto, in un certo senso, storico. Ha detto molto su come è cambiato negli ultimi anni il rapporto tra il pubblico italiano e il rock nazionale. La Nannini ha suonato nei grandi spazi europei, ma il suo nome resta fortemente legato a un’idea di canzone italiana che negli anni ha attraversato mode e generi senza mai diventare semplice nostalgia. Portare quella storia in una cornice monumentale come l’Arena, e farlo con un suono più blues e scarnificato, ha significato rimetterla in circolo, non celebrarla.

Sarà interessante capire anche come verrà raccontata questa data. Gianna Nannini non è un’artista di nicchia: ha venduto milioni di dischi, riempito stadi e vinto premi internazionali. La serata di Verona ha mostrato una forma di vitalità che non ha nulla di derivativo. Il blocco centrale dedicato al “triangolo del blues”, con l’arrivo del chitarrista Patrick Murdoch, ha spezzato la scaletta in modo netto: chitarre scure, ritmi improvvisi, un suono che sembrava arrivare da un club del Sud degli Stati Uniti più che da un anfiteatro romano.
Dopo un bis asciutto di I maschi e di nuovo Sei nell’anima, le luci si sono accese di colpo. Nessun bis infinito, nessuna autocelebrazione. Sono tutte considerazioni che si aprono adesso, a tour concluso. Ma le risposte – nei numeri, nella memoria di chi c’era – dicono già che la scommessa è stata vinta.