Marco Sabatini, classe 2000, ha lasciato Roma con una viola in spalla e molte domande sul suono, sul futuro, su come si possa fare musica oggi. A New York, tra le aule della Juilliard e i progetti del Center for Creative Technology, ha trovato un terreno fertile per crescere come musicista e ricercatore, unendo rigore classico e curiosità contemporanea.
Il primo contatto con la viola avviene in Australia, a quattro anni. “All’inizio era un gioco”, ricorda. “Poi ho capito che quello strumento parlava una lingua che volevo imparare davvero”. Dopo un’infanzia tra emisferi, si trasferisce a New York a quattordici anni per studiare alla Special Music School High School: il primo vero laboratorio di un’identità musicale in fermento. È qui che Sabatini intuisce che la sua vocazione non si limita all’esecuzione: la musica, per lui, è anche esperienza, linguaggio, tecnologia.
Alla Juilliard, dove ottiene Bachelor e Master, trova la possibilità di mettere insieme tutti i pezzi: “È un luogo che può cambiarti, ma devi arrivarci con una visione”. Lui ce l’ha. Al Center for Creative Technology – divisione sperimentale della Juilliard – Sabatini si immerge in un mondo dove i suoni si mescolano ai dati, le partiture si scrivono in tempo reale, e la latenza digitale diventa parte dell’orchestrazione. È qui che inizia a tracciare una nuova mappa per il musicista contemporaneo: non più solo interprete, ma anche produttore, sviluppatore, architetto sonoro.
Nel 2024, il centro lo vuole nel proprio team come assistente alla didattica e alla produzione. In parallelo, affianca l’altrettanto visionaria Molly Carr del Juilliard String Quartet nell’insegnamento della viola. Il suo messaggio è chiaro: “Oggi serve essere ibridi. Non è solo una questione di competenze, ma di comprensione del mondo. I giovani vivono la musica in formato multimediale. Noi dobbiamo saperci entrare”.
Il 28 maggio, Sabatini sarà sul palco per un evento firmato CCT che sembra uscito da un racconto di fantascienza: Clouds in Single File, opera del compositore Ray Lustig, mette insieme musicisti in presenza e altri connessi via Zoom. I ritardi di trasmissione – di solito ostacoli – diventano parte del tessuto musicale. Le voci digitali si fondono con gli strumenti reali in una nuvola sonora fatta di glitch, riverberi, delay.
“Ti obbliga a riconsiderare le distanze”, osserva. “E a pensare il suono come qualcosa che si sposta, si adatta, si trasforma. Con me ci sarà anche Jessie Montgomery, una delle compositrici più potenti della scena attuale. Non è solo un concerto: è una visione del possibile”. Sabatini ha i piedi ben piantati a terra. Quando si parla di intelligenza artificiale, risponde senza esitazioni: “L’AI può generare suoni, ma non relazioni. La musica nasce dall’ascolto reciproco, dal respiro condiviso. Possiamo usarla come strumento, ma non sarà mai la nostra voce”.
C’è anche un lato profondamente umano nella sua missione: portare la musica oltre i grandi palcoscenici, nelle comunità marginalizzate. “New York mi ha dato tantissimo, ma il mio lavoro ha senso solo se riesco a restituire. La bellezza deve essere un diritto, non un privilegio”. Tra una registrazione e una masterclass, Sabatini continua a creare. Collabora con registi, compositori, artisti visivi. Ogni progetto è un tassello di un mosaico in continua evoluzione. “La musica non si finisce mai di imparare. È un processo. Finché rimango curioso, sono sulla strada giusta”.