Succede sempre così, ogni anno, come se fosse la prima volta: ci si ritrova davanti a un tavolo, in una sala nobile del centro di Roma, e si pronunciano nomi e titoli. Ma sotto quell’apparente cerimonia ripetitiva, il Premio Strega compie ogni volta un’operazione fragile e rischiosa: prova a misurare, con lo strumento imperfetto della letteratura, la temperatura di un paese intero.
Nella Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano si è presentata la dozzina dei libri che quest’anno proveranno a contendersi il premio più importante della narrativa italiana. C’erano le autorità, certo. Le istituzioni che lo rendono possibile. Ma soprattutto c’era l’aria un po’ sospesa di chi, ancora, vuole credere che le storie servano a qualcosa. O almeno a non dimenticare troppo in fretta chi siamo.
A presentare i titoli è stata Melania G. Mazzucco, presidente del Comitato direttivo, con quella limpidezza disillusa che le è propria, come se parlasse tanto di romanzi quanto di diagnosi. E in effetti, l’impressione che si ricava da questa selezione è proprio questa: la narrativa italiana di quest’anno, prima ancora di essere una competizione letteraria, sembra un grande consultorio psichico. La follia attraversa i dodici libri selezionati come un filo conduttore inevitabile: sbriciolamento dell’Io, crolli silenziosi, depressioni opache, identità che si spezzano al contatto con la realtà.
Ci sono storie intime e dolorose, come quella che Nadia Terranova affida a Quello che so di te, o come L’anniversario di Andrea Bajani, dove la fine di un amore diventa occasione per misurare il tempo interiore. C’è l’ironia inquieta di Paolo Nori, che in Chiudo la porta e urlo sembra parlare la lingua stessa dell’ansia contemporanea. Deborah Gambetta porta nella narrativa il pensiero febbrile di Gödel in Incompletezza, mentre Wanda Marasco, con Di spalle a questo mondo, attraversa Napoli come uno spettro lirico. C’è un’eco politica e biografica nel libro di Giorgio van Straten dedicato a Nada Parri, La ribelle, e un lirismo della perdita in Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy. E poi ancora Valerio Aiolli con la sua malinconica Portofino blues, Saba Anglana e la sua Signora Meraviglia tra identità e racconto orale, Michele Ruol che in Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia scrive tra le ceneri del presente, Elvio Carrieri che con Poveri a noi racconta la marginalità senza sconti, e Renato Martinoni che in Ricordi di suoni e di luci riporta alla luce la follia fragile di un poeta dimenticato.
E così, più che romanzi, molti dei libri candidati sono mappe dell’Io. Biografie, memoir, confessioni, autofiction: generi che sembravano transitori, ora diventano la lingua madre della narrativa italiana. Il racconto non si proietta più sul mondo, ma su se stessi. Non si inventano trame. si cerca di capire perché ci sentiamo come ci sentiamo.
La lingua che regge tutto questo è spesso spoglia, precisa, scarnificata. L’italiano dei libri della dozzina non cerca più l’effetto, ma la tenuta e in alcuni casi affiora il dialetto come richiamo genetico ad un’origine da cui partire per comprendere ciò che è venuto dopo. Di dire che sì, il mondo è quello che è, ma almeno il linguaggio possiamo ancora sceglierlo. E se la narrativa si fa testimonianza dell’instabilità, non è per disperazione, ma per un’intuizione precisa: solo dicendo il vero – anche se scomodo, anche se sgradevole – possiamo forse restare umani.
Anche il premio, nella sua struttura, sembra voler riflettere questa complessità. Non più un voto solo romano, ma una giuria ampia, diffusa, policentrica: dai 400 Amici della domenica ai 245 giurati all’estero selezionati dagli Istituti italiani di cultura, fino ai lettori forti e ai circoli di lettura.
La serata dei finalisti sarà il 4 giugno, nel Teatro Romano di Benevento, luogo che sa di tempo antico e di nuovi inizi. Il vincitore verrà proclamato il 3 luglio nei giardini di Villa Giulia, come da tradizione, in diretta Rai. E intanto, intorno alla dozzina, si muoverà lo Strega Tour: scuole, festival, librerie, città. Non tanto per promuovere i libri, ma per farli respirare. Per capire se, davvero, sono vivi.