Dal 19 al 31 marzo la carica registica di raffinato intuito e maturità autoriale di Giorgina Pi torna sul palco del Teatro India con Settimo cielo, capolavoro del 1979 della drammaturga inglese Caryl Churchill. Un progetto Bluemotion per una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale con 369gradi e in collaborazione con Angelo Mai, accolto da un grande successo di pubblico e di critica al suo debutto nella passata Stagione,raccogliendo anche due candidature ai Premi Ubu 2018.
Lo spettacolo ripercorre il viaggio di una famiglia inglese nelle proprie ossessioni sui temi delle identità e delle libertà sessuali, che catapulta il pubblico nell’Africa coloniale di fine Ottocento, per poi spostarsi nella Londra swinging della rivoluzione sessuale in piena ribellione punk anni Settanta, lungo una traversata temporale di soli venticinque anni.
SETTIMO CIELO è un sasso lanciato a quelle certezze sull’emancipazione moderna apparentemente acquisite, è una risata beffarda che sfida con la sua visione critica le logiche della società capitalistica. Argomento della pièce sono le politiche del sesso ad uso e consumo del potere, e i loro retaggi nella nostra vita quotidiana. Attraverso un intreccio esilarante, diviso in due atti apparentemente lontani e inconciliabili ma in realtà speculari e complementari, venticinque anni di storia ci raccontano come la strada di una rivoluzione sessuale reale e di una concreta emancipazione degli individui sia ancora lunga davanti a noi. Il testo, con la sua patina di satira glaciale e di feroce humour inglese, si rifà ad un’estetica rock impastata di desideri e conflitti, in cui i luoghi comuni non sono mai separati dai loro relativi rovesciamenti. Sul palcoscenico i sette protagonisti danno vita ad uno spettacolo fluido, nitido e empatico, accattivante proprio nella sua essenzialità.
In scena una famiglia e il suo entourage: parenti, amici, conoscenti e amanti. Il primo atto si struttura su un girotondo di adulteri commessi (o soltanto fantasticati), su un intreccio di passioni che, con la forza di un artificio esibito e smascherato, mette a nudo l’ideologia patriarcale e imperiale che anima i protagonisti. L’ironia è il pernio di un meccanismo teatrale che ridicolizza l’ipocrisia della censura ai riferimenti sessuali all’interno della letteratura vittoriana, censura che sortiva infine l’effetto opposto: quello di riempirli di un marcato sottotesto erotico. Ma sono i corpi degli attori, maschili e femminili, a dare la chiave di lettura ultima di uno spettacolo che smentisce il carattere trasgressivo dell’omosessualità facendo interpretare i personaggi da attori di sesso diverso, con il risultato di problematizzare i rapporti eterosessuali, affidati al contrario ad interpreti dello stesso sesso. La cifra del secondo atto è indubbiamente, invece, il cambiamento. Un’interrogazione e sperimentazione che coinvolge i soggetti socialmente repressi nel primo atto, ovvero le donne e gli omosessuali. I tempi sono cambiati e le concezioni di femminilità e mascolinità con essi, orientamenti sessuali “devianti dalla norma” diventano legittimi e si dichiarano pubblicamente, e i nostri protagonisti si muovono incerti, pronti a reinventarsi nelle relazioni. Più consapevoli ma ancora condizionati dai ruoli, le inclinazioni e i comportamenti del “sesso biologico”, del colore della pelle, della loro cultura, si trovano a riproporre nel processo educativo quelle modalità impositive subite in gioventù, con cui si trovano dunque, ancora una volta, a fare i conti.
Portata per la prima volta in Italia da Giorgina Pi, la commedia conserva il sapore di certe ambientazioni di Derek Jarman; l’impeto del movimento delle donne e degli omosessuali di quegli anni in Inghilterra, con Margaret Tatcher che proprio nel 1979 diventa Primo Ministro; il fervore della ricerca di nuove forme che sostituissero l’immagine stereotipa della coppia e della famiglia, per rappresentarne le istanze più aggiornate. Infatti, i personaggi vivono un tentativo di ridefinizione delle proprie identità, provano a superare i ruoli che gli sono stati assegnati, in un continuo parallelo tra oppressione coloniale e sessuale. Così, immerso in una dimensione queer e punk, Settimo Cielo deborda tra continenti e secoli: «essere quello che si vuole essere, non quello che si può. È il divenire postumano che modifica luoghi e relazioni», riflette la regista Giorgina Pi.
L’Africa coloniale del primo atto è quella terra dei neri diventata una cartolina dei bianchi. Nei ruoli invertiti rispetto alle sessualità supposte (uomini interpretati da donne e viceversa) o al colore della pelle (neri interpretati da bianchi) – è il “cross casting” voluto da Caryl Churchill – risuona l’importazione inglese della cultura omofoba in Africa. L’ “erotica” invenzione del selvaggio, le leggi punitive contro gli omosessuali che la Gran Bretagna impose nelle sue colonie e che ancora oggi dilaniano l’Uganda e altri paesi con il carcere a vita per gay e lesbiche. Un parco nel 1979 e un esploratore nel 1879 si trasfigurano in Brexit, nel Mediterraneo che affoga l’Africa, nel vecchio continente lacerato dal proprio sentimento paternalista e dall’inganno eteronormato che lui stesso ha inventato, a partire dal concetto di famiglia. Quarant’anni dopo resta intatta l’ossessione di controllare i corpi e l’urgenza di difendere la libertà di “vivere come si vuole e non come si può”. Le politiche del sesso tornano centrali per sciogliere ingiustizie di classe e condizionamenti di vita inaccettabili e con esse le lotte delle donne e dei movimenti LGBTIQ.