La sera del 9 novembre, entrando nel piccolo teatro off-Broadway dove andava in scena Vape! The Grease Parody, non immaginavo davvero cosa stessi per vedere. Avevo in mente Grease, la versione cinematografica che avevo visto decenni fa: brillantina, giubbotti di pelle, un’America idealizzata che oggi esiste solo nei revival. Invece sono stato accolto da una nube di vapore alla fragola e da una serie di battute che sembravano voler riscrivere non solo il film, ma l’intero immaginario della ribellione giovanile. E, sorprendentemente, sono finito a riflettere su dipendenze, cervello e salute pubblica, infilate nella trama con una naturalezza quasi disarmante.
Il musical procede come se la cultura digitale contemporanea fosse un personaggio aggiuntivo: quando Sandy parla d’amore, Danny risponde “ti cuoreggio”, un gesto tanto banale da ricordare immediatamente l’universo dei social; tra le righe sbucano “TikTok University” e improbabili club scolastici di cospirazionisti adolescenti. La parodia aggiorna Grease a un presente iperstimolato, dove le drag race non si fanno più con auto rombanti ma con Prius dall’aria sorprendentemente disciplinata. In mezzo, una serie di stoccate sul genere maschile, una più pungente dell’altra: “La società mi dice di dare infinite possibilità agli uomini che non le meritano”, risponde Sandy dopo uno dei tanti scivoloni di Danny.
Poi, a poco a poco, il tono cambia. È come se il musical volesse far emergere un’altra storia sotto la superficie brillante. La preside che ingoia analgesici dicendo “mio marito mi ha lasciata” non è solo un personaggio grottesco: è un frammento di realtà riconoscibile per chiunque conosca la fragilità dell’automedicazione emotiva. Sandy, dopo un solo White Claw, si domanda con leggerezza quali altre decisioni sbagliate dovrebbe prendere: un modo rapido e quasi brutale per mostrare come l’alcol alteri il giudizio molto prima che la coscienza lo ammetta. Perfino il riferimento a un reality come Celebrity Rehab riesce, suo malgrado, a ricordare che la dipendenza è diventata un sottofondo culturale, non più un’eccezione patologica.
Il vaping è trattato con una leggerezza che però non nasconde la sua centralità. Le luci si accendono su cartucce colorate e aromi zuccherini, su un’estetica costruita a immagine e somiglianza dell’adolescenza. Ma dietro quella patina morbida il testo lascia filtrare un’inquietudine: i dispositivi che in scena sembrano giocattoli inoffensivi sono nella realtà vettori di nicotina, THC, CBD e un assortimento imprevedibile di composti. La promessa implicita — che “svapare” sia meglio che fumare — è smontata con grazia e fermezza, proprio grazie ai momenti più frivoli del copione. È una contraddizione che lo spettacolo non risolve, ma che lascia come sospesa nell’aria, proprio come quel vapore profumato che apre la serata.
La verità, per chi osserva le dipendenze da vicino, è che il vaping non è un passatempo innocuo. I ragazzi lo imparano tardi, o non lo imparano affatto, mentre il marketing si fa più aggressivo, i dati più allarmanti e la regolamentazione rimane un’idea vaga. Il musical non scivola mai nel didattico, ma mostra quanto poco basti perché un comportamento diventi cultura, e quanto fragile sia la linea tra gioco e rischio.
Nel finale, quando Tom — il giocatore di football interpretato come un buffone smemorato — accenna alla CTE quasi per sbaglio, si ha la sensazione che Vape! stia dicendo qualcosa che va oltre la sua patina satirica: che certe ferite del corpo e della mente non sono materiale da barzelletta, ma parte della stessa realtà che lo spettacolo mette in scena con apparente leggerezza.
A conti fatti, Vape! The Grease Parody è una commedia sfacciata e piena di energia, un omaggio ironico a un classico del cinema americano. Ma sotto l’umorismo, sotto la parodia e l’iperbole, c’è la consapevolezza che teatro e satira possano essere più efficaci di qualunque campagna di salute pubblica. La medicina, quando viene mescolata alla musica e alla comicità, scende più facilmente. E forse è proprio questo che rende la parodia non solo divertente, ma sorprendentemente utile.

















