Giovani madri si apre in una stazione degli autobus, uno di quei luoghi sospesi che i fratelli Dardenne hanno trasformato più volte in palcoscenico morale del loro cinema. Una ragazza dall’aria fragile, Jessica, appare sullo schermo con la timidezza di chi non ha ancora imparato a occupare spazio nel mondo; solo dopo qualche istante la macchina a mano si abbassa quanto basta per rivelare un ventre enormemente sproporzionato rispetto al suo corpo.
È incinta, prossima al parto, e in cerca di un posto dove stare. Lo troverà in una casa protetta per madri adolescenti nei dintorni di Liegi, un centro che accoglie minorenni in difficoltà offrendo loro una routine fatta di pannolini lavati, pasti condivisi, turni di cucina, burocrazia quotidiana e incontri con assistenti sociali.
A prima vista, la volontà dei Dardenne di mostrare il funzionamento della struttura potrebbe sembrare troppo insistita, quasi didascalica. In realtà proprio questa insistenza, apparentemente “inutile”, diventa la chiave emotiva del film. Ogni scena dedicata alla vita comune — una madre che chiede aiuto per lavare il neonato, un’educatrice che invita alla calma, un gruppo che si organizza per la cena — trasmette una specie di meraviglia trattenuta: la consapevolezza che l’esistenza stessa di un luogo così, in un’epoca fondata sull’individualismo competitivo, sia un’anomalia preziosa. Un piccolo baluardo di fiducia collettiva che i Dardenne osservano con un ottimismo raro nel loro cinema più recente.

Nel corso del film si intrecciano storie che portano con sé traumi familiari, timori di non essere all’altezza, tentativi maldestri di costruire una famiglia o di separarsene. Jessica vorrebbe incontrare la madre che l’ha affidata da adolescente, sperando di colmare un vuoto che teme di trasmettere alla figlia. Julie, la più “avanzata” tra le residenti, prova a immaginarsi una vita con il padre della sua bambina, mentre le ombre delle dipendenze la costringono a un continuo esercizio di autocontrollo. Altre ragazze oscillano tra case instabili, padri assenti, partner troppo immaturi, nonni che tentano di riparare ferite antiche con gesti troppo piccoli. Tutte condividono lo stesso sforzo: non soccombere al destino che hanno ereditato.
Il film, pur attraversato da una compassione vigile, non è esente da fragilità. Le interpreti, spesso non professioniste, offrono prestazioni disomogenee e talvolta faticano a reggere l’intensità emotiva delle situazioni. Ma i bambini — corpi vivi, presenti, imprevedibili — restituiscono al film quella naturalezza che a tratti sembra sfuggire alle madri. Sono loro, paradossalmente, a tenere insieme la verità delle scene: una mano che afferra un dito, un pianto fuori campo, un sorriso improvviso che interrompe una discussione. È in questi momenti che Young Mothers ritrova la materia sensibile dei Dardenne, la loro capacità di far emergere l’enormità del legame umano a partire da un gesto minuscolo.
Se Tori e Lokita condensava il lato più cupo e brutale della loro filmografia recente, Giovani madri, al cinema dal 20 novembre, sembra inclinarsi verso una speranza timida ma presente. I finali, in alcuni casi persino ottimisti, lasciano intravedere la possibilità di un futuro che le protagoniste, pur giovanissime, cercano di inventarsi ogni giorno. Anche se la struttura narrativa, costruita come un passaggio di testimone tra diverse storie, risulta talvolta troppo calcolata, il film non smette mai di ricordarci ciò che i Dardenne sanno fare meglio: osservare la vita quando nessuno la guarda, restituirci la fragilità degli altri senza pietismi, affermare con ostinazione che ogni persona, anche la più sola e impreparata, merita una possibilità di cura.

















