«Je partiva er chicchero», diceva quando non riusciva più a contenere la rabbia. La chiamavano la matta di piazza Giudìa, ma non era pazza. Era viva. E in un secolo che ha provato a spegnere la libertà delle donne e degli ebrei, la sua voce resta una ferita aperta, una memoria che brucia.
Nel teatro di oggi, dove la storia rischia di diventare eco, Elena, la matta è un atto di resistenza.
Alla Sala Umberto di Roma, dal 4 al 16 novembre, Paola Minaccioni torna a incarnare Elena Di Porto, con la regia di Giancarlo Nicoletti e la drammaturgia di Elisabetta Fiorito. È una produzione Altra Scena e Goldenart Production, e la terza volta che lo spettacolo va in scena, come se il pubblico avesse ancora bisogno di sentire quella voce.
Un’antieroina del Novecento
Elena Di Porto nasce nel 1912 nel Ghetto di Roma, in una famiglia povera. È donna, ebrea, antifascista. È tutto ciò che non si può essere sotto il regime.
Separata dal marito, vive di espedienti, di stracci, di parole gridate nelle piazze. La sua rabbia contro le ingiustizie la porta più volte nel manicomio di Santa Maria della Pietà, dove finisce perché non sa stare zitta.
Ma la sua “follia” è lucidità. È consapevolezza in un mondo che ha scelto la violenza e il silenzio.
Minaccioni la interpreta con un linguaggio che non imita ma restituisce: un romanesco addolcito, quasi cantato, che alterna ironia e dolore. Accanto a lei, in scena, Valerio Guaraldi e Claudio Giusti, che con le loro musiche costruiscono uno spazio interiore, un contrappunto alle parole.
La follia come libertà
Lo spettacolo, liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia, La matta di piazza Giudìa (Giuntina), attraversa i decenni più bui del Novecento italiano: le leggi razziali, il rastrellamento del Ghetto, l’occupazione nazista.
Ma è anche un racconto intimo: il corpo di una donna che si rifiuta di piegarsi, che urla quando non può più sopportare, che ama la vita e la libertà come un atto di fede.
Elena è il rovescio di tutte le retoriche sulla follia. È una donna “fuori posto” che diventa specchio del presente, di un mondo in cui chi alza la voce viene ancora dichiarato instabile, e chi disobbedisce viene curato invece che ascoltato.
Teatro come atto politico
Per Giancarlo Nicoletti, la regia è un esercizio di memoria e misura: «Il teatro – scrive – è sempre questione di necessità. Raccontare Elena significa ricordare che la storia non è mai finita. Che la memoria è l’unico modo per capire la contemporaneità».
Non c’è retorica nello spettacolo. Non c’è commiserazione. Solo la forza asciutta di una testimonianza che attraversa il tempo.
Le scene di Alessandro Chiti, i costumi di Giulia Pagliarulo e le luci di Gerardo Buzzanca costruiscono uno spazio quasi spoglio, dove la parola e il corpo diventano i soli strumenti di verità.
Una storia che non passa
In Elena, la matta, la memoria non è un monumento: è una voce che si ostina a parlare.
Paola Minaccioni restituisce alla scena una figura di libertà femminile che non ha smesso di interrogare il nostro presente.
 
			 
					
















