Arriva nelle sale il 25 settembre un film che sorprende per misura e ambizione, un lavoro che sembra partire come action convenzionale ma che presto rivela una natura ben più stratificata. Una battaglia dopo l’altra, ultimo lungometraggio di Paul Thomas Anderson è il primo racconto del regista ambientato nel presente dai tempi di Punch-Drunk Love del 2002. Non un dettaglio: perché proprio l’aderenza all’oggi, al suo disordine e alle sue tensioni, diventa la chiave che dà al film una forza inedita.
Bob Ferguson, interpretato da Leonardo DiCaprio, un tempo noto come Ghetto Pat, artificiere di una milizia ribelle chiamata French 75, vive nascosto in California con la figlia adolescente Willa. La moglie, Perfidia Beverly Hills, combattente instancabile, è sparita da anni. Ma la loro quiete è interrotta dal ritorno del colonnello Lockjaw, un suprematista bianco deciso a regolare i conti con i vecchi nemici.
In questa cornice narrativa lineare si muove però un film che transita costantemente tra i generi, scivolando dall’action puro alla commedia grottesca, dal melodramma familiare alla satira politica. Un flusso instabile che Anderson governa con naturalezza, senza mai indulgere in compiacimenti o ammiccamenti cinefili.
Lo stile è chiaro fin dall’inizio. Sequenze di guerriglia raccontate a colpi di montaggio sincopato, poi pause inattese, silenzi interrotti da battute surreali, fino a un assedio urbano che ricorda tanto il western quanto il cinema catastrofico. Anderson, da sempre incline al respiro lungo e contemplativo, qui sembra scoprire il piacere della velocità: il film dura tre ore ma scivola via con una leggerezza sorprendente.
Non meno cangiante è il lavoro sugli interpreti. DiCaprio offre un Bob insieme spaesato e tenero, figura da ex eroe ridotto a vivere in sordina, più vicino alla malinconia slapstick che al protagonista muscolare. La giovane Chase Infiniti dà corpo a una figlia scontrosa e determinata, mentre Benicio del Toro appare come un alleato inatteso, ma sottilmente comico, in grado di trasformare le scene d’azione in momenti di ironico straniamento. Accanto a loro, due presenze magnetiche: Teyana Taylor, una Perfidia che brucia lo schermo con la stessa naturalezza con cui spara un mitra o abbandona un neonato; Sean Penn, un Lockjaw che oscilla tra caricatura grottesca e minaccia glaciale.
La musica di Jonny Greenwood accompagna questo flusso mutevole: a volte elettrica e nervosa, a volte più morbida, sempre instabile, come i personaggi che abita. Instabile come Bob stesso, che telefona a un vecchio compagno senza ricordare la parola d’ordine, in una scena che trasforma la paranoia in gag, la paura in farsa amara.
Bob, Perfidia e Willa sono figure continuamente in transito: tra passato e presente, tra ribellione e rassegnazione, tra eroismo e goffaggine. Anderson compone un mosaico di rimandi e trasformazioni, in cui l’azione diventa riflesso della realtà contemporanea, fragile e schizofrenica. In fondo, un film sul tentativo di sopravvivere e di ricostruirsi in un mondo che sembra sempre pronto a franare.