Nel ventre di pietra del Teatro romano di Ostia, là dove la storia trattiene ancora il respiro, Antigone si fa voce. Ma non quella greca e solenne della tragedia classica, bensì l’urlo sottile e persistente di Jean Anouilh, che negli anni Quaranta scrisse il suo testo più politico e disilluso nella Francia occupata dai nazisti. Roberto Latini, che ne firma oggi la regia e interpreta l’ambiguo ruolo della protagonista, risponde a quell’urlo trasformandolo in un sussurro inquieto, collettivo, intimo.
In scena il 18 e 19 luglio, Antigone è il secondo appuntamento del Teatro Ostia Antica Festival – “Il senso del passato”, ma più che di senso qui si tratta di resistenza: al tempo, alla retorica, alla facilità delle risposte. Perché questo allestimento si muove in bilico, come la figura stessa di Antigone, tra legge e coscienza, autorità e giustizia, corpo e idea. Latini non cerca di attualizzare il mito: lo lascia parlare da sé, lo affonda nel presente come una lama sottile. Invece di adattarlo, lo lascia risuonare. Il tempo non è un orpello ma una ferita aperta.
Il dispositivo scenico è sobrio, quasi un contrappunto all’intensità delle parole. Sul palco, Silvia Battaglio (Ismene e messaggero), Ilaria Drago (Emone e guardie), Manuela Kustermann (nutrice e coro), Francesca Mazza (Creonte) si muovono come presenze inquiete, riflessi parziali di un’identità più grande. I ruoli si sovrappongono, si scambiano, si specchiano: Antigone e Creonte non sono più due figure contrapposte ma due facce della stessa domanda. È un teatro che non racconta ma interroga, che non insegna ma si offre come spazio di dubbio.
Latini lo dice chiaramente nelle sue note: «Essere uomini o essere umani? È questa la vera posta in gioco». La tragedia non viene illustrata, viene vissuta come un soliloquio a più voci. Antigone non è una martire, non è un’eroina. È una presenza “parziale, scomoda, incapace”, come la chiama Latini. E forse proprio per questo così necessaria. La sua ostinazione a seppellire il fratello diventa una metafora radicale della nostalgia del vivere: “quel corpo insepolto siamo noi, mentre siamo ancora vivi”.
Sotto il cielo aperto di Ostia, la domanda si fa eco. Il pubblico – come in una liturgia senza dogma – è chiamato a prendere posizione, ma non in nome di una morale. La scena diventa specchio, la parola si fa corpo. La tragedia è lì, sospesa tra le pietre e le stelle, a chiedere: le leggi devono regolare il vivere, o la vita deve regolare le leggi che regolano la vita?
L’Antigone di Latini è un teatro che non consola, ma accompagna. Non accusa, ma suggerisce. Non agisce, ma osserva. In questo senso, più che una messa in scena, è un esperimento di vicinanza. Un incontro.
Il Teatro Ostia Antica Festival continuerà il suo percorso con Antigone di Alan Lucien Øyen – in prima mondiale dal 22 al 24 luglio al Teatro Argentina – e si concluderà il 25 e 26 luglio con Ifigenia di Silvia Zarco, diretta da Eva Romero. Ma la domanda, dopo Antigone, rimane sospesa: siamo pronti ad ascoltarci nel silenzio di chi non seppelliamo?