Ogni tanto arriva un film che vuole essere una presa per il colletto al pubblico addormentato davanti allo schermo. Opus, Venera la tua stella, esordio alla regia di Mark Anthony Green, ci prova con tutte le sue forze. Vuole essere Get Out nel mondo dell’electropop. Vuole che guardiamo meglio, che smascheriamo i meccanismi dell’industria musicale. Vuole svegliarci. Eppure, ci lascia lì, nel limbo tra la lucida allegoria e l’inutile estetica da copertina. E non bastano John Malkovich, occhiali da sole metaforici e culti desertici a farci ingoiare l’idea che questo film abbia davvero qualcosa da dire su chi detiene il potere oggi.
Il cuore della storia è Alfred Moretti: superstar del synth-pop, 17 album di platino, sparito nel nulla per 30 anni e ora tornato per un diciottesimo atto finale. Siamo nel deserto – perché ovviamente l’illuminazione mistica oggi avviene via jet privato e prosecco biologico – e lì si raduna il circo mediatico: influencer, giornalisti da redazione-di-fantascienza, paparazzi, e naturalmente Ariel (Ayo Edebiri), la nuova leva dell’informazione, gettata nel tritacarne dell’élite culturale come agnello sacrificale con smartphone. Ma se ti aspetti un vero attacco al sistema, puoi aspettare ancora. Perché Opus sa usare i codici del genere – il culto, il mistero, la paranoia crescente – ma poi li svuota.

Il film suggerisce che Moretti sia circondato da un culto. E lo è. Ma un culto è solo la forma estrema di quello che è già realtà: un’industria che chiede devozione cieca, sacrifici assurdi, e in cambio ti offre – forse – un po’ di visibilità. Green, ex redattore di GQ, conosce quel mondo di junket e yacht party. Ma la sua critica resta impantanata nell’ambiguità. Nessuno – né i personaggi né il film stesso – sembra davvero voler guardare il sistema per com’è. È tutto un gioco di superficie, di stile, di “ma guarda quanto è bizzarro Moretti con la sua estetica da Elton John post-apocalisse”.
Il problema è che Opus si comporta come se bastasse mettere in scena il grottesco per farne critica. La denuncia non può fermarsi alla superficie in un mondo in cui l’estetica la fa da padrona. Serve sostanza. Serve rabbia vera. Serve che quando il protagonista si rende conto del meccanismo, non lo faccia con un sorrisetto ironico, ma con la consapevolezza disperata che la casa è in fiamme e nessuno vuole vederlo. Invece, qui, i personaggi galleggiano. Non vedono, non ascoltano, non reagiscono. Forse è questa la vera distopia: un film su un culto che somiglia troppo a come viviamo ogni giorno, tra contenuti sponsorizzati, premi agli stessi nomi di sempre e microfoni solo per chi ha già voce.