Nell’oscurità di un thriller psicologico che gioca con il grottesco e la paranoia, A Different Man di Aaron Schimberg, nei cinema dal 20 marzo con Lucky Red, si insinua nel labirinto della percezione di sé. Il film segue Edward, un uomo solitario di New York che si sottopone a un intervento medico sperimentale per trasformare il proprio volto, convinto che un nuovo aspetto possa offrirgli una vita diversa. Ma il nuovo inizio si sgretola presto: i fantasmi del passato non scompaiono con la chirurgia e l’identità non si cambia come una maschera. Peggio ancora, un attore che lo interpreta in uno spettacolo teatrale sembra incarnarlo con più autenticità di quanto lui stesso sia mai riuscito a fare.
Un thriller che gioca con il perturbante, mescolando ironia e inquietudine. Edward, un Sebastian Stan sempre più versatile, si dibatte tra l’illusione e il disincanto, risucchiato in un vortice di alienazione. Il film ha il ritmo del noir, ma si muove su un terreno insidioso: il volto che cambia, il doppio che prende il sopravvento, la sottile linea tra realtà e rappresentazione. A fianco di Stan, troviamo Renate Reinsve, che presta il suo sguardo tagliente alla drammaturga Ingrid, inconsapevole regista di un gioco pericoloso, e Adam Pearson, la cui presenza scenica è un colpo di grazia all’ipocrisia dello sguardo sociale.
Il tema è universale e brucia sottopelle: quanto siamo prigionieri della nostra immagine? Quanto può un cambiamento esteriore riscrivere la nostra esistenza? Schimberg lascia che il film si aggiri tra le domande, insinuandosi nelle crepe dell’ossessione moderna per l’apparenza. A Different Man guarda alla tradizione dei grandi film sulla metamorfosi identitaria, evocando suggestioni che vanno da Occhi senza volto a Face/Off, ma con una sensibilità acida e contemporanea, che ricorda la tensione di Black Swan o The Machinist.
La regia di Schimberg è chirurgica nel sezionare il disagio. Il suo sguardo non è neutrale, ma affilato come un bisturi: non a caso il regista stesso, segnato da un’esperienza personale di diversità fisica, trasforma il film in un campo di battaglia tra ciò che si mostra e ciò che si è. Qui non c’è spazio per il patetismo, solo per l’inquietudine pura. Il corpo, modificato e reimpaginato, diventa un terreno di guerra in cui la società impone le sue regole, le sue aspettative.
Edward, con il suo nuovo volto, si scopre ancora più estraneo a se stesso. Il doppio lo perseguita, lo imita, lo supera. L’ironia amara è che l’attore che lo interpreta, Oswald (Adam Pearson), diventa la versione di lui che il mondo è pronto ad accettare. Edward è condannato a guardare da fuori la propria vita, come un personaggio di Kafka che si sveglia mostro senza sapere quando sia avvenuta la metamorfosi.