Fino a pochi anni fa, le prove generali di Sanremo erano un rito per addetti ai lavori, un’occasione per tastare il polso della gara e capire chi aveva in mano il pezzo giusto per prendersi il Festival. Oggi, invece, raccontano altro: la trasformazione dell’Ariston in un’arena in cui la canzone sanremese non è più dominante, rimpiazzata da una visione del Festival più liquida, popolare, fatta di momenti spettacolari e di pezzi costruiti per durare fuori da qui, più che dentro.
Abbiamo visto le prove generali e ci siamo fatti un’idea più chiara. Alcuni pezzi crescono con l’orchestra, altri ne escono indeboliti, quasi fuori contesto. Il pubblico dei giornalisti, che in altri tempi avrebbe già fatto i primi verdetti, oggi si divide tra chi cerca di interpretare le logiche della classifica e chi aspetta solo di vedere il pezzo esplodere sui social. In mezzo, i cantanti provano a tenere in equilibrio le esigenze del Festival con quelle del mercato, tra un’interpretazione da brividi e un colpo di scena scenografico.
I pezzi che restano sanremesi
Quella formula c’è ancora, anche se resiste a fatica. Noemi, con Se t’innamori muori, ci mette la voce e si appoggia all’orchestra, facendo sembrare tutto più solido, più grande. Stesso discorso per Giorgia, che con La cura per me si prende il palco con l’autorevolezza di chi sa che Sanremo è ancora, in fondo, il Festival delle voci. Massimo Ranieri ha capito che il tempo cambia e ha aggiornato il suo repertorio, ma l’emozione resta la stessa: Tra le mani un cuore funziona, ed è l’unico ad avere gli applausi incondizionati già alle prove. Simone Cristicchi, invece, punta dritto al cuore con Quando sarai piccola, un pezzo che sembra nato per raccogliere lacrime e premi della critica.
Il pop per vincere
Poi c’è chi ha capito che il Festival di oggi si vince altrove. Achille Lauro, con Incoscienti giovani, porta un pezzo che è tutto un gioco di rimandi e costruzioni pop, tra orchestrazioni e scenografie da videoclip. Stessa cosa per Elodie, che con Dimenticarsi alle 7 si prende il rischio di una ballad che cresce piano, senza l’impatto immediato del suo passato sanremese.
Gaia gioca la carta del tormentone: Chiamo io chiami tu ha dentro già il balletto pronto per TikTok, e non è un caso. Coma_Cose, con Cuoricini, scelgono il registro emotivo, ma lo spingono al limite: il pezzo potrebbe finire tra le canzoni che fanno discutere per giorni, o tra quelle che si dimenticano appena scesi dal palco.
L’elettronica che detta il ritmo
Il dato più chiaro di queste prove è che la cassa dritta e le atmosfere da club non sono più un’eccezione, ma la norma. The Kolors, con Tu con chi fai l’amore, sembrano riproporre la formula del successo passato, senza però quella sorpresa che aveva reso Italodisco un fenomeno. Willie Peyote mescola atmosfere soul e groove con Grazie ma no grazie, mentre Olly con Balorda nostalgia potrebbe essere la vera rivelazione, almeno secondo chi punta forte su di lui.
Chi si prende il rischio
E poi ci sono quelli che decidono di non adattarsi. Brunori Sas, con L’albero delle noci, arriva sul palco senza effetti speciali, solo con la sua scrittura e una chitarra. È un gesto di sfida, quasi. Lucio Corsi, invece, sembra uscito da un altro mondo: Volevo essere un duro è un pezzo fuori dal tempo, che si porta dietro un’estetica da cult istantaneo. Joan Thiele, con Eco, prende l’Ariston e lo trasforma in un paesaggio sonoro che sembra venire da lontano, mentre Rose Villain con Fuorilegge gioca con l’elettronica e le orchestrazioni, cercando di stare a metà tra due mondi.
L’Ariston come trampolino
Le prove ci dicono che Sanremo è sempre più un pretesto, un passaggio obbligato che gli artisti devono gestire per massimizzare l’effetto fuori da qui. Fedez, con Battito, punta tutto sulla sua narrazione personale, mentre Tony Effe tenta di cambiare pelle con Damme ‘na mano. Clara, Sarah Toscano e Bresh hanno pezzi che suonano già pronti per le playlist, e il loro vero banco di prova sarà quello.
Questa è la fotografia di un Festival che ha cambiato pelle. Sanremo non è più un fine, ma un mezzo. Un punto di passaggio tra passato e futuro, tra tradizione e streaming, tra orchestra e sintetizzatori. La domanda è sempre la stessa: chi vincerà? Ma la risposta, ormai, conta sempre meno.