La sesta giornata del Lucca Film Festival ha ospitato Paul Schrader conosciuto non solo come sceneggiatore di pellicole immortali come Taxi Driver e Toro Scatenato, ma soprattutto per la sua abilità di scavare nelle pieghe irrisolte dell’esistenza, rivelando con implacabile precisione ciò che spesso preferiremmo non vedere.
Schrader è un uomo di poche parole ma di grandi riflessioni personali a profonde analisi sul cinema e sull’esistenza. “La solitudine,” ha spiegato il regista, “non è solo un tema, ma una condizione essenziale dell’essere umano. Sin da quando ho iniziato a scrivere, mi sono sempre interrogato su cosa significhi esistere in un mondo che ci chiede di essere sociali, quando, in fondo, siamo profondamente soli. Il problema,” ha proseguito, “è che l’essere umano è un animale sociale. Siamo costruiti per cercare connessioni, relazioni, ma dentro di noi, nella parte più profonda del nostro essere, sappiamo che quella connessione è illusoria. Il nostro intelletto ci dice che la solitudine persiste, che nessuno può veramente capirci fino in fondo. Ed è lì che nasce il dramma dei miei personaggi.”
Nei suoi film, non ci sono non eroi convenzionali. Sono individui imperfetti. “È in questa contraddizione che trovo la verità del personaggio umano”, precisa il regista. “Voglio personaggi che si spezzano, che cadono e si rialzano, che fanno errori irrimediabili. È nella loro fragilità che trovo la vera forza”.
Quando gli è stato chiesto del suo rapporto con Richard Gere, l’attore che ha interpretato il ruolo principale in American Gigolò, Schrader ha risposto con una sincerità spiazzante: “Richard e io non ci siamo mai persi di vista, anche se i nostri percorsi sono stati molto diversi. Lui ha avuto un enorme successo commerciale, mentre io sono rimasto su un piano di notorietà più basso. Ma abbiamo sempre mantenuto un legame. Ho scritto la sceneggiatura di Oh Canada pensando a lui, per un ruolo completamente diverso da quelli in cui lo avete visto prima. Sarà un anziano in punto di morte, un personaggio molto lontano dal giovane seducente di American Gigolò. Ho sempre voluto mettere Richard alla prova, e questo ruolo è una sfida che credo sarà capace di affrontare con grande maestria.”
Sulla sua capacità di autocritica, Schrader ha confessato, con un sorriso che tradiva un misto di umorismo e serietà: di non riguardare i suoi film: “Non lo faccio per due ragioni. La prima è che potrei rivedere una mia opera e pensare: ‘Wow, questo è davvero buono, sono stato eccezionale!’ Il che è pericoloso, perché ti spinge a compiacerti. La seconda è che potrei guardare qualcosa e dire: ‘È terribile. Non avevo talento allora e non ne ho ora.’ Entrambi gli scenari sono deleteri. Perciò preferisco lasciarmi tutto alle spalle e concentrarmi su ciò che verrà”.
La conversazione ha poi preso una piega più personale quando Schrader ha parlato del premio che riceverà il giorno seguente dalle mani di Ethan Hawke, attore con cui ha collaborato in passato. “Ethan è una persona straordinaria,” ha detto con ammirazione. “È uno di quegli artisti rari, una sorta di uomo rinascimentale. Scrive, recita, dirige, suona, e fa tutto questo con una passione e un’intelligenza fuori dal comune. Confrontarsi con qualcuno come lui è sempre stimolante, ti spinge a voler essere migliore, a non accontentarti mai”.