Berengo Gardin è uno dei maestri indiscussi della fotografia di reportage e di indagine sociale. La mostra che propone il MAXXI dal 5 maggio si muove tra il patrimonio geografico italiano, in una fluida trafilata temporale di sessant’anni di lavoro:
Dalla Venezia delle prime immagini alla Milano dell’industria, degli intellettuali, delle lotte operaie; dai luoghi del lavoro i reportage realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli, e soprattutto Olivetti a quelli della vita quotidiana; dagli ospedali psichiatrici con Morire di classe del 1968, all’universo degli zingari; dai tanti piccoli borghi rurali alle grandi città; dall’Aquila colpita dal terremoto al MAXXI in costruzione fotografato nel 2009.
Il maestro però torna sempre a Venezia, la Serenissima infatti è uno dei punti nevralgici del lavoro oltre che la sua vera terra natia. L’artista inizia a dedicarsi alla fotografia all’inizio degli anni ’50.
Da quel momento non smettera’ mai di fotografare, accumulando cosi’ un archivio fotografico monumentale capace ti raccontare l’evoluzione del paesaggio e della societa’ italiana dal dopoguerra ad oggi, con particolare attenzione all’uomo, alla figura umana: colta nei suoi slanci emotivi, nei suoi momenti più intimi, nei comportamenti e nel rapporto con i luoghi che abita.
Fotografie potenti che costruiscono la storia con la narrazione dell’occhio della fotografia artigianale.
Il racconto si snoda lungo un percorso di oltre 150 fotografie, tra le più celebri, le meno conosciute, fino a quelle inedite: un patrimonio visivo unico, dal dopoguerra a oggi, caratterizzato dalla coerenza nelle scelte linguistiche e da un approccio “artigianale” alla pratica fotografica.
«Il mio lavoro non è assolutamente artistico» racconta Berengo Gardin «e non ci tengo a passare per un artista. L’impegno stesso del fotografo non dovrebbe essere artistico, ma sociale e civile», spiega il fotografo veneziano.
Simbolo di queste affermazioni c’è il lavoro: Morire di Classe, realizzato negli anni 70′. Un reportage sui manicomi italiani che dette risalto alla battaglia combattuta a quel tempo da Franco Basaglia. Quella documentazione, condotta da Berengo Gardin insieme a Carla Cerati fu per l’Italia choccante quanto indispensabile.
La fotografia entra di prepotenza all’interno di strutture proverbialmente chiuse e fa luce su condizioni e situazioni che fino a quel momento non dovevano essere mostrate.
«Si era nel Sessantotto. Franco Basaglia si batteva per la chiusura dei manicomi e insieme a Carla Cerati, fotografa milanese, avevamo realizzato delle fotografie per L’Espresso sui manicomi. Vedendole, Basaglia rimase allibito. Si trattava di fotografie mai viste prima in Italia. Così, abbiamo deciso di farne un libro, Morire di classe, che, con l’aggiunta di testi di Basaglia, ha fatto conoscere all’Italia le condizioni tragiche di questi malati.» In questo modo GianniBerengo Gardin, in un testo recente, ricorda la genesi di uno dei lavori più forti, decisi e importanti della storia del fotogiornalismo italiano.