Mahamet-Saleh Haroun è il primo regista di lungometraggi della sua terra natale, il Ciad e il primo regista ciadiano a competere e vincere premi a Venezia e Cannes, aprendo nuovi orizzonti. Il suo film più recente “Una madre e una figlia” è l’ultimo di una lunga serie della tradizione pionieristica dello scrittore/regista, che si rivolge per la prima volta alle donne alle prese con la spinosa – e illegale – questione dell’aborto nel Ciad contemporaneo. Un territorio inesplorato sia per Haroun che per il panorama cinematografico in generale.
Sono anni che Haroun segue la difficile situazione delle donne che lottano contro le leggi patriarcali rigide e spietate del Ciad. Il risultato è una storia intimamente raccontata di resilienza e lotta femminile. La parola “Lingui”, titolo del film, nella parlata locale (che si affianca al francese) significa legame tra le persone. Amina (Achouackh Abakar Souleymane), una madre lavoratrice e musulmana praticante, è inorridita quando scopre che sua figlia di 15 anni Marie (Rihane Khalil Alio) è incinta. Anche lei madre single, è stata espulsa dalla scuola quando e ripudiata dalla famiglia, ma mette da parte i suoi dilemmi morali e legali per procurare a Marie l’aborto che desidera così disperatamente.
Girato con attori non professionisti in Ciad, l’approccio naturalistico di Haroun conferisce al film una fisicità evocativa e inebriante. Il patriarcato è raccontato dal punto di vista della resistenza femminile. Una madre, una figlia, dal 14 aprile al cinema, mostra la capacità delle donne a costruire legami per sfidare la legge degli uomini.