Quando i teatri riaprono e si ha la fortuna di assistere a questi spettacoli, potremmo dire, parafrasando Goliarda Sapienza quando scrive “E’ morta perchè ha vissuto” che abbiamo avuto il premio perchè abbiamo saputo aspettare.
Uno spettacolo necessario questo di Mario Martone, enorme come sempre nelle scelte di regia, adattato magnificamente da Ippolita di Majo ormai sua collaboratrice già dai tempi di “Noi Credevamo” e impreziosito dalle performance strepitose, quasi cinematografiche, di Donatella Finocchiaro, catanese come la scrittrice, dunque perfetta, e Roberto De Francesco nei panni dello psicoterapeuta.
Il filo è quello della memoria interrotta dagli elettroshock cui Goliarda è stata sottoposta a causa dei suoi tentativi di suicidio. Mezzogiorno è la solita ora in cui il dottore si presenta a casa della paziente, la voce narrante è naturalmente quello della scrittrice siciliana mai abbastanza rivalutata e che andrebbe davvero riletta per capirne la grandezza e la libertà. Una donna la cui storia personale meriterebbe da sola più di un tomo o forse una bella serie, come usa fare adesso. Sceneggiatori lì fuori, pensateci subito!
“Il filo di mezzogiorno”, pubblicato la prima volta nel 1969 e ora ripubblicato da La Nave di Teseo, a cura di Angelo Pellegrino, il marito di Goliarda, è il diario privato di una donna che racconta la sua vita senza filtri, dalla partenza da casa all’arrivo a Roma, dall’incontro con l’arte drammatica all’amore con Citto Maselli, fino alla depressione e allo scontro la società che la vuole “normale”, dunque curata tramite elettroshock alla quale però viene sottratta dal suo compagno che le propone un percorso di analisi con uno dei luminari del tempo, Ignazio Majore, un pensatore libero e indipendente. Sono tre anni di terapia che Goliarda attraversa con le parole per ricostruire ricordi, vita e trovare una stabilità emotiva che faccia piacere alla “società”. E’ un diario frammentato e scomposto, in cui il tempo interiore è sempre al presente, in cui il tempo dell’analisi e quello della memoria non possono che sovrapporsi in un delirio di personaggi che variano dalla madre, al padre, alle sorelle, al fratello ma anche alle amiche e naturalmente Citto, il grande amore di Goliarda con cui però “non facemmo la sciocchezza di sposarci ma il giuramento di restare insieme fino a quando l’amore ci avrebbe tenuti uniti”.
Una scrittura viscerale e intersecata, violenta e scomposta, alternata da momenti di dolcezza a ricordi dolorosi ben delineata sul palcoscenico dal doppio binario, esattamente identico e specchiato, in cui si svolge la scena. Ogni cosa in teoria dovrebbe riflettere sè stessa e non sempre però si rispecchia allo stesso modo. I contorni non sono mai così definiti, il groviglio delle emozioni sale e scende come un’altalena.
“Nell’adattare il testo per la scena – dice la Di Majo – ho immaginato queste due zone del palcoscenico, la prima è uno spazio buio, vuoto, solitario, onirico dove si viaggia tra i meandri dell’inconscio, l’altra è la zona della realtà, della relazione, il luogo dove i fantasmi prendono corpo ma sono arginati dall’incontro col medico. L’esperienza analitica della scrittrice si colloca agli albori della psicanalisi in Italia, era un tempo in cui si poteva cadere in errore e i confini della disciplina non erano ancora così netti. Goliarda disorienta di continuo il dottore con la sua intelligenza fulminea, la sua spregiudicatezza di pensiero, il suo non essere riconducibile a qualcosa di noto. Ho lavorato molto in drammaturgia per dare vita a questo capovolgimento di ruoli, perchè il filo del mezzogiorno è uno straordinario romanzo autobiografico, un canto di libertà ad ogni costo, un libro d’amore per l’analisi, ma è anche il racconto di un contagio psichico”.
In effetti la dialettica tra i due diventa così furente e dipendente che Goliarda ad un certo punto si innamora, o crede di innamorarsi, del suo terapeuta nel più classico dei transfert. Ma nel confessarsi così lucidamente al medico, apre una voragine nelle certezze dell’altro ed è questo lungo gioco di accettazione/respingimento/ribaltamento dei piani temporali e medico/paziente camuffato da “cura” che trasforma i due protagonisti e li fa vivere un diabolico corpo a corpo psico-sentimentale che porterà il dottore ad abbandonare Goliarda di punto in bianco dopo tre anni e a fargli dire che ora è lui ad avere bisogno di andare in analisi.
Da questo scontro barbarico la Sapienza ne esce tramortita ma di certo di nuovo padrona di sè stessa e della sua straordinaria per quanto disperata vitalità.
“Da un episodio con il mio analista Andreas Giannakoulas nasce l’idea di sdoppiare la stanza di Goliarda – dice Martone – quando dopo un anno che lo frequentavo mi fece vedere il lettino – che stava alle sue spalle – sul quale sarei andato nella seduta successiva. Lettino che io non mi ero mai accorto ci fosse. So che ho amato il mio analista e alla sua memora dedico questo spettacolo”.
Tour 2021
Catania, Teatro Verga, 11-16 maggio
Roma, Teatro India, 20-29 maggio
Milano, Teatro Parenti, 1-6 giugno
Napoli, Teatro Mercadante, 29 settembre – 10 ottobre
Torino, Teatro Carignano, 9-14 novembre