La leggenda di Bowie vorrebbe farci credere che Ziggy Stardust sia stato un alieno pansessuale dai vestiti sgargianti, il cui make up si è ispirato al teatro Kabuki. Lo sceneggiatore e regista Gabriel Range, con Stardust, presentato alla Festa del Cinema di Roma, ci riporta alla realtà per raccontarci che il mito di David Bowie ha origini molto più terrene.
Johnny Flynn – cantante e star emergente del piccolo schermo con Emma , Les Miserables e Lovesick– interpreta un Bowie del ’71 smarrito, impacciato (straziante quando Flynn si aggiusta il cappello e spera che nessuno se ne accorga) con un solo successo alle spalle che la maggior parte del mondo della musica aveva liquidato come un disco di novità.
Arrivato in America, la patria del rock n ‘roll e della libertà di espressione, si mette in contatto con l’unico fan di ‘The Man Who Sold To The World’ presso la sua etichetta discografica, il pubblicista Ron Oberman (Marc Maron), e si imbarca in un vorticoso coast-to -coast tour di concerti. Ovviamente si trova nel peggior paese possibile per discutere della sua arte e della sua filosofia, per non parlare di DJ radiofonici bacchettoni e giornalisti rock arroganti.
L’elefante nella sala di proiezione è la mancanza dei successi di Bowie. Il figlio, Duncan Jones, ha precisato che la famiglia non ha approvato il film e non sono stati autorizzati diritti del catalogo musicale dell’era Ziggy. Fatta eccezione per alcune cover di Bowie quando ancora non era Bowie e che Flynn ha magistralmente interpetato. “I Wish You Would” e “My Death”, rivelano che il brillante talento di Bowie è stato criminalmente ignorato.
Il film funziona molto meglio, quindi, come un viaggio rivelatore di chi ha trasformato la potenziale illusione di diventare una rock star famosa in tutto il mondo in realtà. La sceneggiatura di Grange e Bell prende tempo per indagare il motivo per cui Bowie sembra così reticente a spargere la sua polvere di magia. Flynn offre un Bowie turbato, afflitto da flashback sul suo schizofrenico fratello Terry e in preda alla paura che possa anche lui soccombere al codice genetico della malattia mentale.
Stardust è un racconto che si tiene a distanza dal biopic celebrativo e dove la scintilla di ispirazione per la nascita di Ziggy Stardust non viene mai del tutto individuata. Eppure c’è un momento che risveglia il sospetto che Bowie sia in effetti una divinità aliena camaleontica. Dopo aver trascorso una serata ad adorare il nuovo cantante dei Velvet Underground con la convinzione che fosse Lou Reed, in realtà è Doug Yule, Bowie, rivolgendosi ad Oberman, esclama: “è una rock star o qualcuno che si spaccia per una rock star, ma qual è la differenza?” Da quel momento in poi, è lui, l’iconico, celestiale alter ego Ziggy a suonare la chitarra, il culmine della lotta di David per vivere la follia in modo sicuro.