Il Muro di Berlino come un’immanenza con cui misurarsi. Il Muro che divide non c’è più, eppure è presente come una sacra assenza. Noi restiamo lì, spaesati, come Tommaso davanti a Cristo Risorto. Non sappiamo se ci sia stato davvero o se ancora ci sia. Berlino, la sua contemporaneità e le sue domande sono al centro di Checkpoint Berlin, il nuovo film di Fabrizio Ferraro che non si smetterebbe mai di vedere. E’ andato in onda in prima visione assoluta su Rai3 venerdì 17 aprile all’una notte in “Fuori Orario-cose (mai) viste” ed è tutt’ora su Rai Play. Più facile vederlo, che parlarne.
Il film, prodotto da Boudu/Passepartout e Rai Cinema, era previsto nelle sale il 17 marzo scorso quando, per forza di cose, l’uscita è stata rinviata. Da qui, insieme a Rai3-Fuori Orario l’idea di trasmetterlo, con l’intenzione di riprogrammarlo nelle sale appena possibile. Un peccato perdere la dimensione del grande schermo, ma un’opportunità per raggiungere un pubblico diverso e più ampio, nonostante l’orario.
“Checkpoint Berlin”, 64 minuti, si sviluppa intrecciando più trame narrative, con propri protagonisti. Innanzitutto c’è un narratore fuori campo, al maschile ma con voce femminile, si pensa allo stesso autore del film. E’ lui che racconta di ciò che vedremo. Racconta di un regista in viaggio verso la capitale tedesca per proiettare un suo film e per rintracciare un vecchio zio da tempo scomparso. Poi c’è un uomo che nel 1961 fuggì da Est a Ovest nel 1961, con la fidanzata, grazie a uno sconosciuto. Era uno strano ma vitale personaggio che guidava nei boschi attraverso il confine, un vagabondo, homeless, Wanderer, o forse lo zio. Immanenti, appunto, ci sono il Muro, assente e presente, con immagini storiche o attuali, i suoi “martiri” o “traditori”, la città di Berlino nel suo passato e nella sua contemporaneità, tra orde di turisti o nella sua natura verso Spandau e Weißensee.
Tutto scorre in un flusso continuo, il passato è raccontato a colori, il presente è in bianco e nero. Colonna portante il suono, con gli audio originali o la musica ad archi di Šostakovič, Knaifel, Eicher. Come la regìa, anche sceneggiatura, fotografia, montaggio sono ad opera di Ferraro, che è filosofo del linguaggio, amico della terra tedesca, già autore di “Gli indesiderati d’Europa” su Walter Benjamin.
Nei primi minuti di Checkpoint Berlin c’è già tutto. Riprese a pelo d’acqua, sulla Sprea. Il controluce si rifrange nell’ottica della telecamera, come sulle ciglia bagnate di chi nuota per fuggire. Audio del 1961, si cerca un corpo di un fuggiasco, voleva lasciare l’Est. Segue una ripresa in volo della Porta di Brandeburgo, sempre d’epoca, circondata dal Muro. Poi siamo in una boscaglia trafitta di luce, dove un uomo di spalle è in cammino su un sentiero di cortecce sotto chiome di rami e foglie. Canticchia: “Sono un venditore di candele, un vero perdente”. C’è una dominante verde e siamo dentro alla storia di Berlino.
Una voce narrante fuori campo, di donna con pronuncia leggermente straniera, ci parla del regista, arrivato a Berlino. Ne riferisce i tormenti, i ragionamenti sul muro e la città contemporanea.
“Questa vi potrà sembrare la vecchia solita storia – le avrebbe detto il regista – C’era un giorno in cui si sapeva che guardare in avanti voleva dire, in realtà, che si tentava di vedere indietro. Ma da quel giorno appare sempre più difficile intuirlo, senza un muro dinnanzi. Forse anche per questo pare non si possa proprio fare a meno di costruire dei muri e altri muri”. Questo tormentato riflettere si incarna nell’immagine della mano di Tommaso che tocca la ferita nel costato di Cristo. Si tratta del dipinto l’Incredulità di san Tommaso del Guercino e accompagnerà tutto il film, apparendo una decina di volte.
Quello che “il regista dice” verrà sempre raccontato dalla voce narrante, con l’incertezza di ciò che viene riferito. In questa dinamica echeggiano la laconicità di Peter Handke e la specificità della lingua tedesca, che sottolinea con il congiuntivo i dubbi riguardo un discorso riferito. La camera riprenderà spesso il regista nei luoghi dove c’era il Muro, a Checkpoint Charlie o a Bernauer Strasse. Lo riprende perlopiù dal basso verso l’alto, in un’attitudine di attesa, tra turisti indifferenti e indaffarati, attraversato da interrogativi esistenziali fondamentali, sempre in bianco e nero. La città stessa sembra smarrita.
Il tema della sacralità del muro diventa una riflessione della voce narrante, e quindi di Ferraro: “Tutto è così quasi fatalmente inutile perché il muro, nonostante tutto, è e sarà sempre sacro. Anche se la civiltà che lo considera sacro ha costruito nuovi muri, non per ritrovarsi, ma proprio per continuare a dividere (…) Mi rendo conto che sacro è parola angusta lampeggiante, quasi interdetta, di un corpo che sosta nella sua presenza, ma non trovo parola migliore”.
In una continua inquietudine, una dimensione mistica ed esistenziale, il film torna costantemente ai luoghi della città contemporanea, di Mitte, a meditare sull’assenza del Muro. Poi se ne distanzia per raccontare il passato.
Scorrono le immagini storiche, della Berlino bombardata, della notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 quando la città venne divisa, dei primi mesi e anni di consolidamento del muro. Vengono ricordate due storie di segno opposto del Muro. Una è la storia di Günter Liftin, sarto, la prima vittima della polizia di Berlino Est, ucciso a 24 anni il 24 agosto 1961 mentre cercava di attraversare a nuoto la Sprea. L’altra è quella di Hagen Koch, 21 anni, cartografo militare incaricato di individuare il percorso del muro che smembrò la città: il 15 agosto tirò la prima riga per terra tra Friedrichstrasse e Kochstrasse.
Il Muro come limite, come separazione dalla libertà, da una vita che valga la pena di rischiare la morte pur di essere raggiunta, il Muro come decisione amministrativa, come scelta politica. La storia di una città, e di una civiltà, come storia sospesa, non ancora riconciliata: “Quando queste due storie e opere potranno stare insieme, ci sarà una ragione che non dice e non nasconde, ma significa” dice il regista.
Nella ricerca dello zio scomparso da decenni, dopo il turbamento dovuto al Muro e alla scomparsa della moglie, il regista intervista un uomo, che potrebbe dargli informazioni utili. Gli racconta, storia e testimone sono reali, della sua fuga con la fidanzata, poco dopo la costruzione del muro, da Est a Ovest. Si affidarono quasi casualmente a uno strano personaggio, un vagabondo, incontrato per caso al limitare della foresta, che in effetti li accompagnerà sani e salvi dall’altra parte, attraversando prima il bosco e poi un tunnel.
Non ci sarà modo, però, di appurare se fosse lo zio scomparso o meno. Nemmeno le motivazioni che portarono la coppia alla fuga oggi sono così tanto salde. Forse di là dal Muro non c’era quello che ci si aspettava. La stessa città, oggi, nelle riflessioni della voce narrante, è un campo aperto di spinte, di vuoti e pieni, di interrogativi: “Questa massa di turisti che abbatte muri è la stessa che terrà insieme i mondi totalitari?”
A distanza di anni il racconto del Muro che è nato, e poi non è stato, e dei suoi protagonisti, o dei suoi osservatori, vede nel misterioso personaggio di confine, zio o non zio, metà a Est e metà a Ovest, l’unico ad avere trovato una identità compiuta.
Sembra quasi che per avere qualcosa di saldo occorra ripartire dal rimettere insieme i cocci della storia, “l’emozione di non vedere più il muro, ma di sentirlo quasi come un frammento di qualcosa da cui il nostro viaggio non può che partire”. Serve un muro, per essere capaci di immaginare, sognare, guardare oltre? E’ la presenza di un limite che aiuta a guardare avanti?
Con Ferraro hanno lavorato Alessandro Carlini, Marcello Fagiani, Fabio Fusco, Marta Reggio, Marco Ciampani, Caterina Gueli, Freddy Paul Grunert. Scenografia e costumi Stefano Gaeta, Federica Formaggi.
Una Berlino wendersiana nell’immagine di Ums.
Riproduzioni del film e immagini originali di Berlino (c) Ums