Alla Galleria Bombi da dicembre 2025 diventa DAG – Digital Art Gallery, il tunnel digitale più grande d’Europa. Un set permanente in cui il visitatore diventa soggetto, spettatore e movimento.
L’architettura, restaurata è pronta ad accogliere un flusso continuo di immagini. Cento metri di LED curvi, installati come una gigantesca pellicola luminosa, trasformano il tunnel in uno spazio che guarda e restituisce, riflette e assorbe. Ogni passo è uno scatto; ogni presenza, una sovrimpressione.

La visione di Refik Anadol
Per aprire DAG è stato chiamato Refik Anadol, un artista che lavora con i dati come un fotografo con la luce. Dove altri vedono numeri, lui vede texture; dove altri trovano informazione, lui trova forma. Le sue immagini non sono catturate: sono generate, cresciute, coltivate come organismi che trasformano il respiro della natura in movimento.
Con Data Tunnel, Anadol non occupa lo spazio: lo ascolta. L’opera segue la curvatura del tunnel, la sua ombra, la sua storia. È un’installazione che si comporta come un tempo di posa molto lungo: raccoglie le vibrazioni della natura – foglie, correnti, nubi, suoni – e le lascia depositare sulla superficie del LEDwall finché non diventano immagine.
Qui la natura non è descritta, ma evocata. È un negativo che prende forma, una materia che fluttua tra percezione e memoria.

La luce come materia
Data Tunnel è un’immagine che non ha un centro. Si muove come farebbe il colore in una stampa bagnata, si espande, si contrae, pulsa. Le tinte ricordano la bioluminescenza, gli impasti dell’acqua, il battito degli ecosistemi. Non ci sono figure: ci sono presenze. Non ci sono paesaggi: c’è un modo di guardare il mondo che nasce dalla sua trasformazione.
Come un fotografo che lascia che la luce racconti ciò che non si vede, Anadol dà spazio agli interstizi – ai passaggi, alle soglie, ai momenti in cui un dato diventa immagine. Il tunnel diventa così un rullino infinito, una superficie sensibile su cui scorrono le metamorfosi della natura.
Un’esperienza che si attraversa
Entrare nella DAG significa entrare in un’installazione da dentro, non da davanti. Il visitatore non osserva: cammina dentro l’immagine, come se stesse spostandosi all’interno del diaframma di un obiettivo aperto.
Il movimento non è accessorio: è parte della composizione. Le immagini non chiedono di fermarsi, ma di lasciarsi portare, come quando si attraversa un paesaggio in treno e tutto scorre, ma tutto resta.
Il tunnel, un tempo rifugio, ora si comporta come una camera oscura che sviluppa memoria e futuro nello stesso momento. Ciò che era statico diventa flusso; ciò che era confine diventa continuità.

Un nuovo sguardo per la città
Con DAG, Gorizia acquisisce un nuovo linguaggio visivo: non una galleria nel senso tradizionale, ma un dispositivo ottico urbano. Un luogo in cui luce, storia e tecnologia costruiscono un’immagine collettiva, un invito a guardare l’ambiente – naturale, urbano, umano – con occhi più sensibili.
DAG non è solo un nuovo spazio espositivo: è una lente. Una lente che ingrandisce il presente, sfoca i confini, mette a fuoco il futuro.

















