La chitarra nella roccia – Lucio Corsi dal vivo all’Abbazia di San Galgano, presentato alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma, è un film concerto diretto da Tommaso Ottomano e girato interamente in pellicola 16mm. Più che un live, è un rito pagano di musica e pietra.
«È stato mezzo traumatico, perché molto divertente» dice Lucio Corsi. «Io amo queste cose un po’… storte, dove il rispetto della performance ti arriva lungo addosso, ti cambia, e poi cambia anche te. È un film, non è semplicemente un concerto.»
Il pubblico, nel film e fuori, è un mosaico. «Ho notato ancora di più che c’è molta varietà nel pubblico» racconta. «Ci sono bambini con i nonni, ragazzi della mia età. Quella è la cosa che mi piace: la musica come spazio comune.» Dopo Sanremo e l’Eurovision il baricentro non si è spostato: «È stata una sorpresa che sia andato così bene. Le date sono cresciute, ma io sono con gli stessi ragazzi di sempre. Passo le giornate con Tommaso e gli amici, a scrivere canzoni. In realtà non è cambiato niente.»
La bussola resta la Maremma. «Gli alberi intorno a casa mia mi insegnano a guardare il panorama restando piantati a terra. Vanno in alto per sbirciare, ma poi restano dove sono nati.» Il successo bussa, a volte clacsona: «Il giorno dopo Sanremo sono uscito e le macchine mi salutavano… ma cerco di vederla come una cosa reciproca: spesso sono io il pubblico di altri, uno spettatore tra spettatori.»
Sul palco Corsi cerca l’imperfezione giusta. «Nei live non cerco la precisione ma il sentimento, dove le spie fischiano, dove le voci sono rotte e tremano come i lampioni. Preferisco le versioni sgangherate a quelle di studio: passano emozioni più istintive. Mi piace portare le canzoni dal vivo in modo diverso rispetto al disco; altrimenti è un esercizio.»
L’immaginario, come sempre, è popolato di figure. «Ho sempre amato i personaggi nelle canzoni. È un po’ in disuso, ma vale la pena continuare: storie senza tempo, non legate a un momento preciso, che ti presentano nuove persone — amici o gente con cui non vai d’accordo.» Se diventassero una creatura? «Me la immagino lunga, che naviga nella campagna, però con una buona acustica nella pancia.»
Il film è anche un esperimento di luce.: «Abbiamo deciso di girare a cavallo fra il giorno e la notte. Volevamo la temporalità reale: luce del giorno, tramonto, la luce blu, e poi le luci del concerto. Non avendo il tetto, la luce era protagonista. Abbiamo piazzato anche una luce molto in alto, quasi a far “divinare” lo spazio. Siamo arrivati alla fine dell’esperimento seguendo il pubblico, il respiro del luogo.»

È un sodalizio nato per amicizia, prima che per mestiere. «Io e Lucio lavoriamo insieme dall’inizio delle nostre carriere» dice Ottomano. «È sempre stato divertente, mai pesante. Anche se le cose sono cambiate, il nostro metodo no. Essere qui e aver potuto realizzare questo film non è scontato.»
Dentro scorrono riferimenti e ossessioni da collezionisti di live. Corsi: «I film-concerto con cui sono cresciuto sono stati importanti — ho dimenticato di citare il Rolling Thunder di Dylan. Dei dischi live mi ha sempre affascinato che spesso preferisco le versioni dal vivo a quelle in studio: senti la matrice della canzone, capisci com’è stata concepita.»
A novembre il film arriva nei cinema The Space; il 14 novembre esce anche il disco. La sensazione, rivedendosi, è ancora quella di Corsi: «Sono curioso. Mi fa piacere. Vediamo come respira in sala.» In fondo, in San Galgano la musica ha trovato pietra, vento e una verità semplice: quando non c’è un tetto, le canzoni provano a scappare in cielo. E qualche volta restano.

















