Alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato Il falsario, il nuovo film di Stefano Lodovichi, scritto con Sandro Petraglia e in uscita su Netflix dal 23 gennaio.
È un film che parla di falsi, ma non solo di quadri: parla della menzogna come linguaggio collettivo, della capacità di sopravvivere dentro un Paese che da sempre confonde la verità con l’invenzione.
Liberamente ispirato alla figura di Antonio Chichiarelli, artista e falsario romano, il film si muove tra realtà e immaginazione. Il protagonista, Toni (Pietro Castellitto), arriva a Roma nel 1976 con l’ambizione di diventare pittore. La città lo seduce e lo corrompe: in poco tempo diventa un falsario di talento, un uomo che impara a vivere imitando se stesso.
Accanto a lui c’è Donata (Giulia Michelini), gallerista nata ai margini della capitale e poi affermata nei salotti dell’arte. È intelligente, calcolatrice, innamorata. La loro relazione è un patto di sopravvivenza, un modo per scalare un mondo che accoglie e divora.
“Toni è un avventuriero, ma anche un bambino irrisolto”, dice Lodovichi. Nel film non c’è giudizio, solo osservazione. Toni attraversa la grande Storia italiana – servizi segreti deviati, terrorismo, potere – senza mai appartenere davvero a nulla. È un personaggio sospeso, incapace di scegliere, che riflette un’Italia in perenne ambiguità.
Per Sandro Petraglia, la storia è anche una riflessione sul disincanto: “Negli anni Settanta si pensava di poter cambiare il mondo. Oggi non più. Toni rappresenta proprio quella perdita di fiducia.”
Pietro Castellitto aggiunge: “Quella generazione aveva pagine bianche da scrivere. La nostra legge un libro già scritto”.
In Il falsario Roma è un personaggio a parte. È luminosa e crudele, bellissima e marcia. È la città dei tramonti dorati e dei locali fumosi, degli artisti, dei ladri e dei compromessi. Accanto a Toni si muovono Balbo (Edoardo Pesce), criminale dal cuore storto, e il Sarto (Claudio Santamaria), simbolo di un potere invisibile che orchestra tutto.
Lodovichi la descrive come un “porto e una tempesta”: un luogo dove la bellezza non salva, ma confonde. Il regista non ha vissuto quegli anni, ma li ricostruisce con una precisione sensoriale.
La fotografia di Emanuele Pasquet rievoca il cinema del tempo – zoom, grana, macchina a spalla – mentre il montaggio di Roberto Di Tanna alterna lentezza e scatti improvvisi. Le musiche di Santi Pulvirenti si intrecciano con brani dell’epoca, da Boney M. a Bryan Ferry, per restituire la febbre di un’Italia in trasformazione. Le riprese, girate tra Roma e Frascati, restituiscono una capitale sporca e poetica, in cui la verità sembra sempre un’ombra proiettata su un muro scrostato.
Alla fine, Il falsario è un film sul tempo e sull’attesa.
Su come si possa vivere mentendo, e su quanto ci vuole per capire che la verità non è un assoluto, ma un lavoro lento. Nel film, l’enigmatico Zu Pippo (Fabrizio Ferracane) riassume tutto in una frase: “Le cose importanti arrivano solo a chi sa aspettare”