C’è un uomo che vive solo tra le stalle ristrutturate di una villa in rovina, Villa Guelfi. Si chiama Adriano, fuma un mezzo toscano, parla poco, guarda il mondo con una stanchezza che sembra più vecchia di lui. Un giorno, nella campagna abbandonata dove si è rifugiato, arrivano dei ragazzi. Hanno occupato la villa, vogliono coltivare la vigna, ridare senso a un luogo dimenticato. Lui li odia da subito. Ma come accade spesso nei film di Paolo Virzì, dietro al sarcasmo e alla misantropia c’è un dolore che chiede solo di essere riconosciuto.
Il conflitto iniziale tra Adriano e la piccola comunità di giovani idealisti è il motore di 5 secondi, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Quello che all’inizio sembra un racconto di scontro generazionale — l’adulto cinico contro la gioventù ingenua — si trasforma in qualcosa di più intimo e spiazzante: un incontro tra solitudini.
Tra quei ragazzi c’è Matilde, una ragazza incinta che non si preoccupa troppo di chi sia il padre del bambino. È lei, più di tutti, a incrinare il muro di Adriano. Non con le parole, ma con la sola ostinazione del vivere.

Virzì, presentando il film, lo ha definito “molto doloroso”, ma attraversato da “uno spiraglio di fiducia nella natura umana”. È un film che nasce — dice — “dall’abisso di una persona e dalla necessità di capire cosa ci sia dentro. Scoprire se esiste ancora la possibilità di rimettere in discussione la propria vita, di riscoprirsi padre, o semplicemente umano”.
Le sue parole arrivano con la consueta calma toscana, ma portano dietro un’urgenza: quella di raccontare persone che provano ancora a ripararsi, anche quando sembrano irrimediabilmente rotte.
Nel film, Adriano ha il volto di Valerio Mastandrea, presenza familiare nel cinema di Virzì, eppure sempre capace di reinventarsi. “Paolo mi ha mandato un soggetto di quindici pagine e mi sono commosso subito, cosa che non mi succede quasi mai”, racconta. “L’ho insultato per questo. Con lui abbiamo questa capacità di prenderci in giro sul dolore, di ridirigerlo altrove. È una malinconia che sappiamo contenere”.
È un Mastandrea più nudo del solito, privato di ironia, ma non di umanità. Un uomo che si scopre tenero solo quando tutto sembra finito.
Accanto a lui Galatea Bellugi, che dopo Gloria! si conferma una delle voci più interessanti della sua generazione, interpreta una Matilde fragile ma determinata, una giovane donna che non chiede salvezza, ma complicità. La scelta di Virzì di affiancarla a Mastandrea funziona perché mette in scena due attori agli antipodi, capaci di scontrarsi e riconoscersi nello stesso respiro.

A completare il quadro, Valeria Bruni Tedeschi, nel piccolo ma prezioso ruolo di Giuliana. L’attrice parla di Virzì come di “una terapia di gratitudine”: “Quando lavoro con lui sono costretta a vedere una luce dentro di me che normalmente non tocco. Sul set di Paolo sto bene, anche quando il dolore domina la scena. È come imparare a ridere della tragicità, e farlo insieme”.
Con 5 secondi Virzì torna a una dimensione rurale e crepuscolare, che rimanda a certi suoi esordi ma con un tono più grave, quasi elegiaco. La campagna toscana non è più la cartolina spensierata di Ovosodo, ma un luogo di memoria e fatica, un corpo ferito che chiede di essere curato.
Il vigneto selvatico che i ragazzi tentano di rianimare diventa metafora trasparente della vita stessa: se lo curi, produce un vino che dà euforia; se lo abbandoni, marcisce.
È una storia di paternità, ma anche di trasmissione: cosa resta quando un padre non c’è più, o quando non si è mai stati padri? Cosa si può imparare dagli altri, anche quando si arriva troppo tardi?
Virzì racconta tutto questo con il suo consueto equilibrio di malinconia e ironia, con un ritmo che mescola tragedia e leggerezza, dolore e piccoli lampi di umorismo. È un film che parte dal buio e si chiude con un gesto minimo — un atto di cura — che vale più di molte redenzioni.