Un litigio nato da un equivoco, un pestaggio durato meno di un minuto, una morte che ha segnato un Paese intero. Quaranta secondi bastano a distruggere una vita: quella di Willy Monteiro Duarte, ventun anni, ucciso la notte del 5 settembre 2020.
A partire da quella tragedia, Vincenzo Alfieri costruisce un film che non è un’inchiesta e nemmeno un racconto di cronaca: è un viaggio nella banalità del male, dentro la provincia italiana, tra ragazzi qualunque e rabbie che covano sotto la superficie. “Non volevo raccontare la violenza, ma ciò che la precede,” dice Alfieri. “Le ventiquattro ore prima, gli sguardi, la noia, le piccole umiliazioni quotidiane che si accumulano fino a diventare qualcosa di incontrollabile.”
Il regista, conosciuto per commedie e noir d’azione, qui cambia registro. Dopo aver letto Alzati e corri, direttore! di Federica Angeli, ha scelto di guardare il caso di Willy non come un fatto di cronaca ma come una parabola sull’educazione, la perdita e l’indifferenza.
Il film nasce da una lunga ricerca: sopralluoghi nei luoghi reali, interviste a testimoni e amici, settimane di conversazioni con ventenni delle stesse zone. “Mi interessava capire come quei ragazzi vivono, cosa ascoltano, come parlano. Non giudicarli, ma metterli davanti a uno specchio”.
Alfieri gira con la macchina da presa attaccata ai volti, quasi sempre in primo piano.
“Volevo catturare le micro-espressioni,” racconta. “I piccoli gesti che tradiscono emozioni vere. È un taglio quasi documentaristico, ma con il ritmo del cinema.” Ha montato lui stesso il film, giorno per giorno, per lasciare agli attori la possibilità di vedersi e aggiustare il tiro.
Nel cast convivono professionisti e volti presi dalla strada. Lo street casting è stato essenziale per restituire autenticità. Accanto a interpreti come Francesco Di Leva, Sergio Rubini e Maurizio Lombardi, ci sono Giordano Giansanti, Luca Pedrini, Justin De Vivo e Beatrice Puccilli, giovani per cui questa è la prima esperienza davanti alla camera. Puccilli racconta di aver capito subito che “non bisognava recitare, ma vivere le scene”. De Vivo, scoperto per caso in una discoteca, dice che il ruolo “gli è caduto addosso come un destino”, e che il regista “lo chiamava la sera per rassicurarlo, come un fratello maggiore”.
Giansanti parla di “un lavoro per capire la violenza, non per giustificarla”.
Francesco Di Leva, figura centrale nel cast, sintetizza così l’esperienza: “Ci sono film che non scegli per interpretare un personaggio, ma perché ti danno la possibilità di dire chi sei. Questo è uno di quelli”.
Alfieri rifiuta l’estetica dello shock. La violenza nel film non è mai mostrata in modo esplicito: rimane fuori campo, un’assenza che pesa più delle immagini. “Volevo un impatto psicologico, non visivo,” spiega. “La morte di Willy non doveva diventare spettacolo, ma coscienza”.
L’autore parla spesso di “assurdità”, “incomprensibilità”, “verità paradossali”. Alcune scene sono romanzate, ma sembrano reali; altre, realmente accadute, risultano quasi irreali. “La realtà non ha obblighi morali verso la verosimiglianza. Il cinema sì. Ma stavolta ho scelto di non rispettarlo”.
In controluce, “40 secondi” racconta una generazione disorientata. Un virus silenzioso, lo chiama il regista: la noia. È quella che scava, che svuota, che fa esplodere. Non un film “di cronaca nera”, ma un ritratto dell’Italia minore, dove la rabbia cresce nel vuoto di senso e nel desiderio di appartenere a qualcosa.
“È una storia di ventenni,” conclude Alfieri, “e del male che si annida nelle loro giornate tutte uguali. La violenza è solo l’ultimo atto di un dramma invisibile che comincia molto prima”.