Che cosa vede un cane quando abbaia nel vuoto?
La domanda attraversa come un sussurro tutto Good Boy, il debutto alla regia di Ben Leonberg, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in arrivo sulle principali piattaforme italiane dopo l’uscita americana dello scorso 3 ottobre.
Un film che parte da un’immagine domestica e la trasforma in incubo: una casa isolata in campagna, una presenza invisibile, un uomo che si sta perdendo. E un cane che osserva, percepisce, protegge.
Leonberg firma un horror intimo, ancorato a una dimensione emotiva che si muove tra la paura e la perdita. Niente bambini spettrali, niente crocifissi che tremano. Solo un cane, Indy, che sembra intuire ciò che l’uomo accanto a lui non può o non vuole vedere.
«Non volevamo un cane speciale. Volevamo un cane vero», spiega il regista. Indy non parla, non ragiona come un essere umano, ma possiede sensi che l’uomo può solo immaginare. «Può sentire cose che sfuggono ai nostri radar. È stato questo a permetterci di raccontare una classica ghost story… ma dal basso. Letteralmente. La cinepresa sta alla sua altezza, e il mondo è filtrato da lui. È un modo per dire che esiste una sensibilità altra, che non parla ma sente. E molto più di noi.»
Quella prospettiva ribaltata – lo sguardo a livello di pavimento, le inquadrature che inseguono odori e ombre – è il cuore di Good Boy. Un horror che respira l’aria della quotidianità, e proprio per questo inquieta. «Quando il tuo attore protagonista è un cane, non puoi seguire le regole del cinema,» racconta Leonberg. «Io e mia moglie, che ha prodotto il film, abbiamo lavorato attorno ai suoi ritmi: lo attiravamo con i dolcetti, lo guidavamo con suoni, aspettavamo i suoi tempi. Indy non sapeva di recitare, ma la sua presenza era magnetica. Tutto il film poggia sulle sue piccole spalle ignare.»
Dietro la superficie dell’horror, Good Boy è una storia sul legame tra uomo e animale, sulla fiducia cieca e sulla fragilità dell’amore incondizionato. «Indy non cambia, non evolve, non impara. È perfetto così com’è,» spiega Leonberg. «Ama Todd fin dall’inizio. Lo ama mentre peggiora, mentre si chiude, mentre si arrabbia. Quando lo allontana, lui resta. Non si offende, non lo giudica. È semplicemente lì. Presente. È l’amore che non chiede spiegazioni.»
Il film prende forma anche da un ricordo personale. «La casa? È la mia infanzia sotto formalina,» dice il regista. Le stanze polverose, i mobili sbeccati, gli angoli bui non sono pura scenografia: «Molti oggetti vengono davvero dalla casa dei miei nonni. Durante il lockdown pensavo spesso a quel tempo sospeso, a un luogo rimasto fermo nel passato. È una casa reale, ma anche uno spazio mentale. Un limbo. E Todd – il protagonista – è un uomo in bilico tra due mondi. Forse è questo che rende la storia più malinconica che spaventosa.»
Ma la casa non è l’unico spazio sospeso. Anche il confine tra realtà e sovrannaturale resta incerto. Quello che Indy percepisce è davvero un fantasma, o è una malattia, un dolore fisico o mentale che solo lui riesce a captare? «I cani possono annusare il cancro, le crisi epilettiche, il male fisico. Ma cosa succede se ciò che percepiscono è la sofferenza emotiva? O la morte che arriva? Il confine tra realtà e visione si sfuma, e in quel punto d’ombra vive la nostra storia.»
L’idea nasce proprio da una di quelle domande ipotetiche alla Stephen King. «King è una delle mie più grandi ispirazioni. Si chiede sempre “e se…?”. E se un cane fosse l’unico a sapere che la casa è infestata? Da quella domanda è nato tutto. Good Boy è un thriller paranormale concreto, ma visto attraverso gli occhi di un cane spinto in circostanze straordinarie.»
Come spesso accade nei migliori horror, l’elemento soprannaturale è solo la superficie di qualcosa di più profondo. Good Boy parla dell’isolamento contemporaneo, della difficoltà di prendersi cura di qualcuno quando si è già spezzati. «Dopo la pandemia, la solitudine è diventata un’epidemia,» spiega Leonberg. «Il film riflette su questo: su un uomo che sceglie l’isolamento e trova nel suo cane l’unico legame autentico rimasto.»
Non ci sono urla o colpi di scena, ma un’inquietudine lenta, insinuante. Il vero orrore di Good Boy è la perdita di fiducia, l’erosione dell’intimità, la paura di vedere il mondo disfarsi attraverso occhi che non possono mentire.
«L’horror funziona meglio quando sembra reale,» conclude Leonberg. «Quando le case assomigliano a quelle in cui potremmo vivere davvero. Good Boy è più di un film di fantasmi: è la storia di un cane che percepisce un’oscurità universale, e di un uomo che non riesce più a riconoscerla. Forse perché, in fondo, quell’ombra è già dentro di lui.»