Presentato in anteprima al Capalbio Film Festival, il nuovo film di Giuseppe Piccioni riporta al centro Giovanni Pascoli, troppo a lungo relegato nei manuali scolastici come il “poeta delle piccole cose”. Con Zvanì, il regista sceglie uno sguardo intimo e personale, mettendo al centro la famiglia del poeta e, soprattutto, la sorella Mariù. Lo abbiamo incontrato per parlare della genesi del progetto, del peso della sofferenza nella vita di Pascoli e del rapporto che le nuove generazioni potrebbero ancora avere con lui.
Cosa l’ha convinta a dirigere questo film dopo aver letto la sceneggiatura di Sandro Petraglia?
Mi ha colpito la scelta di non voler raccontare tutto. Pascoli è un universo sterminato: poesie, saggi, studi, lettere. Sarebbe impossibile racchiuderlo in un film. La sceneggiatura, invece, si concentrava sul suo legame con le sorelle, soprattutto con Mariù. È lì che si vede l’uomo dietro il poeta: i silenzi, le ferite, la voglia di ricostruire quel “nido” familiare spezzato. Questo approccio mi è sembrato il più vero e, paradossalmente, anche il più cinematografico.
Benedetto Croce lo definiva “poeta delle piccole cose”. Un’etichetta che ha pesato molto, soprattutto nella scuola.
Sì, è stata una definizione che lo ha impoverito. Generazioni di studenti hanno conosciuto Pascoli come un autore minore, legato a immagini delicate e dolorose, ma ridotto quasi a un soprammobile poetico. In realtà era un uomo attraversato da passioni, contraddizioni e modernità sorprendente. Era un pacifista, un intellettuale inquieto, capace di affrontare questioni che ci toccano ancora oggi. Con questo film vorrei che i ragazzi si liberassero dell’idea di un Pascoli solo “lacrimoso” e scoprano invece quanto sia vicino ai loro turbamenti.
La vita di Pascoli è stata segnata da perdite e dolore. Quanto conta la sofferenza nella sua arte?
Credo che in ogni artista ci sia una ferita che diventa linguaggio. Nel caso di Pascoli, la tragedia familiare è stata devastante: la morte del padre, la povertà, la dispersione dei fratelli. Ma accanto al dolore c’era una disciplina straordinaria, una cultura vastissima. Dal latino ai classici, dalla filologia alla metrica, Pascoli ha saputo trasformare le sue mancanze in poesia. Non è stato solo un uomo ferito, ma un artista che sapeva reinventarsi e continuare a scrivere anche nei momenti bui.
Perché la sorella Mariù è così centrale nella sua versione cinematografica?
Mariù è stata la custode di Giovanni. Senza di lei, molte opere non esisterebbero. È stata la sua compagna, la sua protettrice, la presenza che gli ha permesso di non soccombere. Attraverso di lei ho voluto raccontare un Pascoli fragile, che aveva bisogno di affetto e di qualcuno che lo difendesse. Mariù ci permette di entrare nel cuore della sua quotidianità e di cogliere il lato più umano del poeta.
Nel film il treno funebre diventa un luogo sospeso, tra realtà e visione. Come mai questa scelta?
Non volevo limitarmi al realismo. Pascoli viveva in dialogo con i morti, e molte sue poesie sembrano sedute spiritiche. Il treno che porta il suo corpo da Bologna a Barga è diventato per me un simbolo: un corridoio dove passato e presente, apparizioni e memorie si intrecciano. Ho cercato di restituire quell’atmosfera onirica, un dormiveglia che appartiene alla sua scrittura.
Quanto hanno contato gli attori in questa avventura?
Sono stati determinanti. Federico Cesari ha restituito la vitalità e la fragilità del giovane Pascoli, senza imitarlo ma trovandone l’essenza. Benedetta Porcaroli ha portato modernità a Mariù, evitando la retorica del sacrificio. Liliana Bottone e gli altri giovani hanno dato freschezza, mentre interpreti più maturi come Margherita Buy e Riccardo Scamarcio hanno aggiunto profondità. Senza di loro, il film non sarebbe quello che è.