Nel marzo del 2025 esce un disco che non urla, non sgomita, non chiede il permesso. Volevo essere un duro è il titolo. Una mezza bugia, un’affermazione ironica e romantica, proprio come chi l’ha scritto: Lucio Corsi, cantautore maremmano di trentun anni, con la voce leggera, la fantasia sfrontata e i piedi, più che sulla terra, sospesi a mezz’aria tra la Luna e le storie della provincia italiana. Il disco arriva dopo un Sanremo che lo ha visto secondo, con una canzone che sembrava uscita da una pellicola anni Settanta mai girata. Un valzer glam-pop che parlava più agli sguardi che alle orecchie. Eppure, la sua forza era tutta lì: nell’assenza di urgenza, nel non voler convincere nessuno. Solo raccontare.
Ma per capire davvero cosa sia Volevo essere un duro, bisognerebbe forse dimenticare Sanremo e le classifiche, le etichette e il “ritorno del cantautorato”, e sedersi accanto a Lucio, magari in una trattoria ai bordi di un campo di fieno, dove Marc Bolan e Ivan Graziani dividono una bottiglia di rosso. Bowie e Venditti, nel frattempo, chiacchierano al tavolo accanto. Sì, è quel tipo di disco: un incontro impossibile che però accade, perché la musica, quando è fatta bene, trasforma il surreale in familiare.
Corsi non è mai stato uno da titoli cubitali. Dopo Bestiario musicale, Cosa faremo da grandi), Volevo essere un duro è un album retromaniaco, sì, ma consapevole. Sa perfettamente di essere un collage, un omaggio, un esperimento. Eppure, suona come qualcosa che non si era ancora sentito. Il punto non è cosa racconta Lucio Corsi. Il punto è come lo racconta. Con la tenerezza di chi sa che tutto può essere trasformato in sogno, anche un bagno della scuola media o un compagno mostruoso delle medie. In Let There Be Rocko, il rock’n’roll corre a mille all’ora, ma non fa paura. È solo il ritmo di un’infanzia deformata dal ricordo. E Francis Delacroix, con il suo amico fotografo un po’ mitomane, sembra uscito da una pagina alternativa di Another Side of Bob Dylan, se Dylan fosse cresciuto tra le colline di Grosseto.
Il cuore dell’album pulsa tra Tu sei il mattino, ballata sinfonica che ha vinto il “finto Festival” della serie Vita da Carlo, e la già citata Volevo essere un duro. In mezzo, però, c’è di tutto: c’è Sigarette, con quel verso tra il tragico e il buffo (“tra il bene e il male scelgo sempre sigarette”), che pare scritta da un altro Lucio, quello di Piazza Maggiore; c’è Situazione complicata, un divertissement degno della malizia pop di Rino Gaetano; e c’è Il re del rave, che unisce la malinconia di Elton John al misticismo acido di Claudio Rocchi.
Mentre ascolti l’album immagini Lucio che cammina in mezzo alle sue storie, come un narratore con la camicia fuori dai pantaloni, la testa piena di sogni e un po’ di malinconia dietro agli occhiali. Quando canta, sembra chiederti: “Hai tempo per una storia?” E tu, immancabilmente, rispondi di sì.
Oggi Lucio Corsi viaggia sui 4,5 milioni di ascoltatori mensili su Spotify. Ma questa è solo una nota a margine. Perché la sua vera vittoria è un’altra: aver convinto il pubblico ad alzare di nuovo la soglia della meraviglia.