L’Erede di Xavier Legrand, nelle sale italiane dal 20 febbraio, ha una forza che raramente si è vista sul grande schermo negli ultimi anni, ed è uno di quei film che spingono lo spettatore a riflettere su ciò che è rimasto taciuto troppo a lungo. Dopo il successo del suo precedente lavoro, L’Affido del 2017, Legrand torna con un’opera che si allontana dalla dinamica familiare strettamente definita per esplorare il delicato territorio della lotta generazionale, della violenza psicologica e del trauma. Un’opera raffinata che, attraverso il thriller, ci invita a esaminare l’eredità invisibile di un padre e la sua ombra, allungata oltre la morte.
Non è casuale che il film si apra con un ritorno a casa, dove il protagonista Ellias (interpretato Marc-André Grondin) giunge, dopo la morte del padre, nel luogo che ha sempre rappresentato per lui sia rifugio che prigione. L’Erede non è solo una riflessione sulla discendenza, ma è un viaggio attraverso la memoria, una memoria che si fa carne, che esce dalla pelle dei protagonisti per diventare l’unico linguaggio possibile tra passato e presente. La regia di Legrand, che modula sapientemente tra il dramma e il thriller, si fa attraversare da momenti di suspense, ma è nella sua capacità di rivelare lentamente la profondità emotiva del protagonista che il film si fa davvero potente.
Il cinema di Legrand, come quello dei maestri della tensione psicologica, riesce a costruire l’angoscia in modo sottile e quasi impercettibile. I movimenti della macchina da presa e l’uso di inquadrature angolari non solo stimolano il disorientamento dello spettatore, ma suggeriscono anche un’ansia latente che viene sempre alimentata dal non detto. L’intera vicenda, che si snoda come una serie di eventi che sfuggono al controllo, diventa l’occasione per esplorare l’impossibilità di distaccarsi dal passato, soprattutto quando questo è intriso di silenzi e di non scelte che segnano il destino dei figli.
Il regista non si limita a descrivere la lotta tra padre e figlio, ma ne fa un simbolo più ampio della lotta tra ciò che ci è stato imposto e ciò che possiamo scegliere di diventare. La sofferenza psicologica che affligge Ellias si fa riflesso della tensione interna a una società che fatica ad affrontare le sue ombre, dove le ferite intergenerazionali non sono mai davvero sanate.
In L’Erede, la ricerca di una propria identità non è un viaggio lineare, ma un incontro scontro con un’eredità che non si lascia dimenticare. Le ombre del padre, la sua presenza invadente, si insinuano in ogni angolo della trama, come un eco che rimbalza tra le stanze vuote di una casa troppo grande per chi ci vive dentro.
L’intreccio di generazioni, che sembra condurre inevitabilmente verso la ripetizione degli errori del passato, si fa metafora di un ciclo che è difficile da spezzare. L’opera di Legrand è un invito a riflettere su come i legami familiari possano davvero definirci.