Immaginate un uomo che, dopo anni di battaglie e avventure, finalmente torna a casa. Non è un eroe epico, ma un padre qualunque, un uomo che ha passato troppo tempo lontano dalla sua famiglia. È questa la prospettiva che il regista Uberto Pasolini ci offre con Il Ritorno, una rilettura intima e moderna dell’Odissea che abbandona gli dèi capricciosi e i mostri mitologici per concentrarsi su ciò che conta davvero: l’umanità.
“Mi sento anch’io un po’ come Ulisse”, confessa Pasolini. “Non ho combattuto in guerra, ma ho trascorso troppi anni lontano da chi amo”. Il regista e produttore italiano ha impiegato trent’anni per portare questa sua visione di Ulisse sul grande schermo, con un’idea chiara fin dall’inizio: raccontare il viaggio non come una serie di peripezie eroiche, ma come un percorso interiore di riconciliazione con sé stessi e con il proprio passato.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Il Ritorno arriva in sala il 30 gennaio con 01 Distribution. Pasolini dirige un film intimo e psicologico che esplora il significato profondo del ritorno: cosa significa davvero riabbracciare chi si è lasciato indietro? “Non volevo raccontare un’epopea avventurosa,” spiega Pasolini, “ma la difficoltà di tornare.” Il protagonista, interpretato da un magistrale Ralph Fiennes, non è più l’eroe invincibile della leggenda, ma un uomo fragile, quasi spezzato. “Abbiamo lavorato molto sull’interpretazione di Fiennes affinché il suo Ulisse non fosse un eroe mitologico, ma un uomo segnato dal tempo e dalla lontananza, con il peso dei rimorsi sulle spalle”, aggiunge il regista.
Accanto a lui, due figure fondamentali danno corpo al suo legame con la casa e la famiglia: Penelope e Telemaco. Penelope, interpretata dalla straordinaria Juliette Binoche, non è la regina paziente e immutabile della tradizione, ma una donna forte, segnata dall’assenza, che lotta per proteggere il proprio figlio. “La mia Penelope è più di un simbolo di attesa”, precisa Pasolini. “La Binoche ha dato al personaggio una profondità incredibile, trasformandola in una donna che ha dovuto prendere decisioni difficili e trovare la forza di andare avanti”.
Telemaco, invece, è un giovane uomo in cerca di sé stesso, combattuto tra l’ammirazione per un padre che conosce a malapena e il bisogno di affermare la propria indipendenza. Un conflitto profondamente attuale, che riecheggia nelle vite di molti figli di oggi. “Il suo percorso è cruciale nel film,” dice Pasolini. “Non si tratta solo del ritorno di Ulisse, ma di un figlio che cerca di capire chi è davvero, al di là della figura mitizzata del padre.”
Il Ritorno è anche una riflessione amara sulle conseguenze della guerra. Non sono più le creature mitologiche a ostacolare il ritorno di Ulisse, ma un nemico più subdolo e devastante: la guerra stessa. “La guerra non ha eroi”, sottolinea Pasolini. “Il vero mostro è il trauma che resta, la difficoltà di ricostruire una vita normale dopo aver vissuto l’orrore”.
L’estetica del film riflette questa scelta narrativa: scenografie essenziali, atmosfere cupe e una fotografia che gioca con luci e ombre per amplificare l’inquietudine dei personaggi. “Abbiamo scelto di girare in location reali, con una luce naturale che desse un senso di verità assoluta,” racconta il regista. “In questo modo lo spettatore sente il peso del tempo e della distanza, quel senso di spaesamento che ha lasciato Ulisse combattere da solo i suoi demoni’.
Un’opera che trasforma il mito in una storia umana e universale, capace di parlare a chiunque abbia mai sperimentato la lontananza e il desiderio di ricongiungersi con ciò che ha lasciato indietro. “Per me, il cuore dell’Odissea non è il viaggio, ma il ritorno,” conclude il regista. “Ed è proprio lì che inizia la vera sfida”.