L’albero, alla Festa del cinema di Roma, è un viaggio intimo e struggente attraverso la vita di Bianca, una giovane donna di 23 anni, sospesa tra il desiderio di futuro e il peso opprimente del presente. Diretto da Sara Petraglia, il film esplora le fragili dinamiche tra amicizia, dipendenza e amore, in un microcosmo tutto femminile, dove l’adolescenza lascia spazio a un’età adulta che incombe minacciosa.
Bianca, interpretata da Tecla Insolia, ha abbandonato la casa dei genitori e l’università, incastrata in una routine dominata dalle sue ossessioni: il tempo che scorre inesorabile, la cocaina che anestetizza il vuoto interiore e l’intensa relazione con Angelica, la sua coinquilina e confidente. Le due ragazze condividono un legame che sprofonda nel caos della loro vita quotidiana, confondendo i confini tra amicizia e amore, tra dipendenza e complicità. La trama si sviluppa in un crescendo di tensione emotiva, dove ogni momento di vicinanza sembra portarle sempre più verso la distruzione.
Il quaderno di Bianca, su cui annota pensieri sparsi, diventa un simbolo della sua volontà di catturare qualcosa di sfuggente: l’essenza della giovinezza, il dolore che la attraversa, la consapevolezza che tutto ciò che conosce e ama potrebbe svanire. Tuttavia, il film non è privo di speranza; tra le vie notturne di Roma e Napoli, con i paesaggi che scorrono come fotogrammi di una memoria in dissolvenza, si percepisce una vaga promessa di salvezza, come se, nonostante la perdita, niente andrà davvero perduto.
La regia di Sara Petraglia è intrisa di malinconia e delicatezza. La regista ci svela il lungo e travagliato percorso che ha portato alla realizzazione di questa storia, originariamente concepita in altre forme come diari, romanzi e fanzine, tutte rimaste incompiute. “Il mio è un tentativo di dare forma alla nostalgia, di trasformare l’esperienza individuale in un racconto collettivo, capace di toccare corde universali”, spiega la regista.
Il film ritrae un mondo femminile isolato, dove non esistono né uomini né figure adulte rilevanti. Le protagoniste si muovono in un ambiente chiuso, autonomo, fatto di relazioni complesse e talvolta autodistruttive, dove la dipendenza non è trattata come un puro segno di marginalità sociale, ma come un’esperienza esistenziale che modella la loro identità.
Petraglia parla di morte senza raccontare la malattia, proponendola piuttosto come il segno ineluttabile della fine di un’epoca, lasciando spazio a una riflessione: “visto che la morte esiste, abbiamo fatto bene a vivere”. Il tema della scrittura, della narrazione come atto salvifico, è centrale. Scrivere, per Bianca, è un modo per dare ordine al caos, per reinventare se stessa e la propria storia.
Con la sua atmosfera sospesa tra realismo e sogno, e con una regia attenta a cogliere le sfumature emotive, la regista riflette sulla precarietà della giovinezza, sulle relazioni che ci formano e deformano, e sulla necessità di raccontarsi per sopravvivere al dolore.