C’è un momento, nella vita di tutti, in cui ci si ferma a chiedersi se si è fatto tutto il possibile per essere fedeli ai propri ideali. Daniel Auteuil, acclamato attore e regista, ricorda esattamente quel momento nella sua carriera. Sei anni dopo aver diretto Sogno di una notte di mezza età, pensava di aver appeso al chiodo la macchina da presa. Ma un giorno, sua figlia Nelly, con la naturalezza di una chiacchierata a tavola, gli parlò di un blog tenuto da un avvocato penalista, Jean-Yves Moyart. Auteuil, incuriosito, iniziò a leggere. Quei racconti di vite spezzate, di solitudine e disperazione, lo colpirono profondamente. Fu in quel momento che capì: doveva tornare dietro la cinepresa, doveva raccontare quella storia. E’ questa la genesi del film La misura del dubbio, al cinema dal 19 settembre distribuito da BIM Distribuzione
La trama del film ruota attorno a Jean Monier, interpretato dallo stesso Auteuil, un avvocato che ha smesso di occuparsi di casi penali dopo aver assolto un assassino recidivo. La sua vita procede in sordina, impegnato in casi minori, finché non viene coinvolto, quasi controvoglia, in un nuovo processo. Nicolas Milik, un uomo dalla statura massiccia e dall’anima infantile, è accusato di aver ucciso sua moglie. Monier accetta il caso solo per fare un favore alla sua ex moglie, avvocatessa incaricata della difesa, ma quello che inizia come un semplice atto di cortesia si trasforma presto in qualcosa di molto più profondo e personale. Monier, toccato dalla fragilità e dall’apparente confusione di Milik, si ritrova a combattere con se stesso, tentando di riaccendere una passione per la giustizia che credeva ormai spenta.
Ma cosa spinge davvero Auteuil a voler raccontare questa storia? L’elemento che lo ha catturato fin dall’inizio è la riflessione sulla verità. Non una verità assoluta, limpida e inequivocabile, ma una verità fatta di sfumature, di percezioni soggettive, dove il dubbio gioca un ruolo centrale. Come racconta lo stesso regista, il blog di Maître Mô descriveva la solitudine dell’avvocato difensore, l’unico che resta accanto all’imputato quando tutto sembra crollargli addosso. Auteuil è rimasto affascinato da questa figura, dall’idea che la verità non sia univoca, ma che cambi a seconda di chi la osserva, diventando una sorta di intima convinzione.
Nel film, questa tematica si riflette nella relazione tra Monier e Milik. Da un lato, c’è l’avvocato, un uomo segnato dai suoi fallimenti e dalla perdita di fiducia nel suo mestiere; dall’altro, c’è Milik, un uomo fragile, quasi disorientato, che sembra vivere in un mondo tutto suo. È proprio questo disorientamento, questa confusione, che tocca Monier nel profondo. Auteuil descrive il suo personaggio come un uomo che si aggrappa alla speranza di poter fare ancora qualcosa di buono, di poter salvare qualcuno. Ma la salvezza non è una certezza, né per Monier né per Milik. Come afferma Auteuil, citando Lacan, “Amare significa dare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole”.
Auteuil ha voluto che La misura del dubbio non fosse un classico legal drama, ma qualcosa di più sfumato, più vicino alla complessità dell’animo umano. Per questo ha scelto di lavorare con Steven Mitz alla sceneggiatura, destrutturando la narrazione in modo da confondere lo spettatore. Il film non segue una progressione lineare, ma alterna momenti di chiarezza a momenti di dubbio, proprio come avviene in un processo giudiziario, dove le certezze si costruiscono e si disfano nel giro di pochi minuti. Auteuil voleva che lo spettatore si smarrisse insieme ai personaggi, oscillando tra la convinzione che Milik sia colpevole e l’idea che possa essere innocente.
La tensione si costruisce lentamente, con una regia che si concentra sui volti, sugli sguardi, sui silenzi. Le scene del processo, in particolare, sono cariche di un’energia silenziosa, dove ogni parola pesa come un macigno. Non ci sono eccessi drammatici o spettacolarizzazioni, ma un senso di autenticità e fragilità che riempie ogni scena. Monier e Milik non sono eroi, ma uomini imperfetti, spinti da motivazioni confuse e incerte, proprio come il sistema giudiziario in cui si trovano a operare.
La scelta di ambientare la storia nella Camargue non è casuale. Per Auteuil, la regione rappresenta un territorio conosciuto, intimo, che però nel film assume una connotazione diversa, quasi straniante. Se nei film dei fratelli Pagnol, Auteuil aveva raccontato la Camargue in modo esotico e pittoresco, qui il paesaggio diventa cupo, invernale, specchio del tumulto interiore dei protagonisti. La terra battuta dal mistral, i cieli grigi e i tori sullo sfondo creano un’atmosfera che si riflette nelle anime tormentate di Monier e Milik. La Camargue diventa così non solo un luogo geografico, ma un vero e proprio paesaggio dell’anima, un contesto in cui si agitano emozioni contrastanti e incertezze profonde.
Il film si regge anche sulle straordinarie interpretazioni del cast. Grégory Gadebois, nei panni di Nicolas Milik, offre una performance straordinaria, incarnando un personaggio complesso, un colosso fragile che si muove con l’innocenza e la confusione di un bambino. Accanto a lui, Gaëtan Roussel, musicista al suo debutto come attore, interpreta Roger, l’amico devoto di Milik, un ex militare alcolizzato che cerca disperatamente di aiutare l’amico. La loro amicizia è uno degli aspetti più toccanti del film, un legame che resiste nonostante le difficoltà e le incomprensioni. Roussel, con il suo fisico asciutto e il volto segnato, offre una performance intensa, fatta di silenzi e gesti che dicono più di mille parole.
A completare il cast, Sidse Babett Knudsen interpreta Annie, l’ex moglie di Monier, anch’essa avvocato. Nonostante il suo ruolo relativamente piccolo, la Knudsen riesce a trasmettere con poche scene una storia di affetto e rispetto reciproco tra due persone che hanno condiviso molto, ma che si sono allontanate. È proprio in questi dettagli, in queste sfumature, che il film trova la sua forza.
La misura del dubbio è una riflessione più ampia sull’umanità e sul senso della giustizia. Auteuil ha voluto raccontare un processo che non ha nulla di spettacolare, ma che proprio per questo diventa universale. I crimini ordinari, quelli che si consumano lontano dai riflettori mediatici, spesso si risolvono sulla base di poche certezze e molti dubbi. È questo il cuore del film: l’incertezza che governa non solo il sistema giudiziario, ma la vita stessa.