Asif Kapadia, il regista britannico di origini indiane, è tornato alla Mostra del Cinema di Venezia con un’opera fuori concorso: 2073. Immaginate una New San Francisco futura, una città che sembra l’incarnazione di ogni incubo contemporaneo, dove crisi multiple si intrecciano e danno vita a uno scenario distopico che riflette con precisione inquietante le paure e le sfide del nostro tempo.
Kapadia non è nuovo a mescolare realtà e finzione, ma questa volta si è spinto oltre, costruendo una narrazione che è insieme provocatoria e didattica. Per fare questo, ha abbandonato la linearità narrativa, optando per un mosaico di passato, presente e futuro. Questo metodo richiama una sorta di capsula del tempo, un avvertimento lasciato da qualche entità misteriosa, forse aliena, che urla: “Questi eventi si stanno avvicinando, agite ora, perché per me è già troppo tardi!”
La genesi di 2073 affonda le sue radici nel periodo turbolento della Brexit. Kapadia, sconvolto dalla piega politica e sociale del Regno Unito, ha iniziato a riflettere su come la paura e la disinformazione possano spingere le persone a sacrificare la propria libertà. I suoi timori si sono amplificati osservando la retorica divisiva di Donald Trump negli Stati Uniti e la crescente ondata di autoritarismo in tutto il mondo, dall’India di Modi al Brasile di Bolsonaro.
Ogni scena del film è un pugno nello stomaco: immagini di caos sociale, paesaggi desolati e una colonna sonora che martella nelle orecchie, tutto costruito per far emergere un senso di urgenza e disperazione. È come se Kapadia volesse scuoterci dalla nostra apatia, ricordandoci che le scelte di oggi potrebbero portarci a un domani catastrofico.
Un’opera che non lascia spazio a compromessi, 2073 si impone come un monito visivo, una sfida diretta a guardare negli occhi le nostre paure più profonde e a riflettere seriamente sul mondo che stiamo costruendo, o distruggendo. Kapadia stesso ha ammesso: “Voglio che il pubblico si senta a disagio.” E di certo, ci riesce.