Nella sua opera seconda, Valerio Mastandrea ci porta dentro un reparto ospedaliero che diventa il palcoscenico di una strana serenità, fatta di rassegnazione più che di pace. Il protagonista, ormai abituato alla sua condizione di degente, ha trovato un equilibrio fragile, un rifugio in una routine che lo tiene al sicuro dalle pressioni e dalle aspettative del mondo esterno. Questo microcosmo ospedaliero, che dovrebbe essere un luogo di cura e guarigione, si trasforma in una sorta di prigione dorata, dove il tempo sembra essersi fermato e qualsiasi cambiamento è percepito come una minaccia.
Ma tutto cambia con l’arrivo di una nuova paziente, una donna che porta con sé un vento di inquietudine e ribellione. È un incontro dirompente, che segna il punto di rottura nell’equilibrio del protagonista. Da un lato, c’è il desiderio di restare ancorati a una condizione di immobilità, di trovare conforto nella stasi; dall’altro, c’è la spinta a rompere le catene dell’inerzia, ad affrontare le incertezze e le paure che il cambiamento inevitabilmente comporta.
Questa tensione tra due modi opposti di vivere la solitudine e la libertà è al centro di Nonostante, film di apertura della sezione Orizzonti alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. “Lo dedico a chi ha il coraggio di rischiare, a chi non fugge davanti a un’emozione tanto potente come l’amore” — racconta Mastandrea con un sorriso che tradisce l’intensità del pensiero. “È per quelle persone che, senza neanche rendersene conto, si ritrovano intrappolate nell’immobilità della loro vita, ma che poi trovano la forza di liberarsi e superare i propri limiti.”
Il titolo del film, ci svela, è ispirato alle parole dello slavista e poeta Angelo Maria Ripellino, scritte durante il suo tempo in sanatorio. “L’avverbio diventa sostantivo,” spiega, “per rappresentare tutti noi, marchiati da un numero, storti, sgualciti, piegati dalle tempeste della vita, ma che, nonostante tutto, opponiamo la nostra testardaggine all’arroganza del male.” Una riflessione che diventa un omaggio a chi, pur segnato dalle difficoltà, trova la forza di non arrendersi.
La regia, in collaborazione con il direttore della fotografia Guido Michelotti, utilizza inquadrature strette e claustrofobiche per riflettere l’isolamento emotivo del protagonista. Un senso di oppressione visiva che rispecchia perfettamente il suo desiderio di restare protetto, lontano dai pericoli del cambiamento. Ogni scena è studiata per far emergere la tensione tra i personaggi, con una sceneggiatura che lascia spazio ai silenzi e ai non detti, invitandoci a leggere tra le righe, a percepire le emozioni più profonde non attraverso le parole, ma attraverso ciò che rimane inesprimibile.
Con il film, prodotto con la società creata con Zerocalcare, Damoclea, Mastandrea conferma la capacità di inserire una sottile ironia in questa esplorazione della sofferenza umana, quasi a suggerire che, nonostante tutto, c’è sempre una possibilità di riscatto. È come se, attraverso questo racconto intimo e universale, il regista ci volesse ricordare che, anche nelle situazioni più difficili, esiste sempre una speranza di ritrovarsi con gli altri e con se stessi.
In fondo, i due protagonisti sono avvolti in un velo di tristezza, ma c’è qualcosa in loro che li spinge a cercare la luce, a strappare quel velo e a confrontarsi con le loro paure. E mentre lo fanno, ci regalano uno spaccato di umanità che, per quanto si adagi su qualche cliché, risulta autentico e commovente.