Con tono lieve, Era scritto sul mare, film documentario di Giuliana Gamba prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, racconta, attraverso la micro-storia di una coppia dell’isola di Marettimo dei primi del Novecento, l’epopea migratoria di tanti italiani che hanno lasciato il proprio Paese e contribuito, scommettendo la propria vita, a determinare le fortune e lo sviluppo di altri Paesi e popoli.
Presentato alla 41esima edizione del Torino Film Festival, Era scritto sul mare può essere definito un “melò d’archivio”, che intesse sorprendenti immagini dell’Archivio Luce Cinecittà e di archivi americani, con riprese attuali in un accurato bianco e nero. La sorpresa del colore resta, di rado, per riprendere il rosato e luminoso tramonto sull’isola di Marettimo, quasi fosse un sogno.
È a Marettimo, infatti, che Era scritto sul mare ambienta l’amoroso carteggio tra Anita e il marito Vito, migrato oltreoceano per preparare il futuro di entrambi, come tanti suoi compaesani. La vita di Marettimo non offre prospettive se non la pesca, per quanto ricca, con le lampare e casse di sarde, e il lavoro agricolo o con il bestiame. Ambienti poveri, case scavate nel tufo, le famiglie raccolte in una stanza insieme all’asino. Così Vito e altri compagni si imbarcano, clandestini, su un piroscafo che li porta verso l’America.
Viaggiano nelle stive, tra i bauli, vicino alle caldaie, con la paura di essere scoperti e il rischio di soffocare, e qualcuno ci muore, come Peppe, in un parallelismo che ci fa pensare ai viaggi della disperazione di oggi. I viaggiatori clandestini escono dai loro nascondigli solo di notte, a respirare, e magari a raccattare qualche soldo nella pulizia dei pontili.
“Marettimo, scoglio dolomitico in mezzo al Tirreno. – dice la regista Giuliana Gamba – appare come un grande ventre che dà la vita a uomini coraggiosi che sfidano il mare, a donne forti come le rocce su cui si infrangono le onde quando c’è tempesta. È un’isola sacra e misteriosa. Ho voluto raccontare le donne di Marettimo e la loro laboriosa e paziente attesa che ci rimanda a miti ancestrali, alle radici profonde della nostra cultura mediterranea. Attraverso una narrazione che unisce fiction a un inedito materiale di repertorio, ho ricostruito la storia di Anita e Vito, emblema di questa unica e straordinariavicenda umana”.
“La cura di ogni cosa è l’acqua salata, le lacrime, il sudore, il mare” sentenzia Anita, scavando in una saggezza atavica che vede più lontano di quanto lei immagini. Già durante il viaggio, da quella società stratificata che è un transatlantico, con l’alta società che balla al suono dell’orchestra, Vito tocca con mano la propria miseria. “Anita mia, abbiamo campato con niente”. Mentre i chilometri lo allontanano da casa, insieme alla nostalgia cresce la voglia di riscatto. Intanto Anita riceve e scrive lettere, e il suo volto viene inquadrato in primo piano, con lo sguardo rivolto verso il mare, pieno di speranza.
Sono stati oltre otto milioni e 700 mila gli italiani emigrati tra il 1901 e il 1915, verso l’Europa Occidentale, le Americhe, l’Australia.
Arrivato a Nuova York, Vito si dà da fare. La modernità frenetica da Tempi moderni lo entusiasma. Non c’è altro che lavoro, per chi abbia voglia di lavorare. Vito dapprima fa il manovale al grande ponte sul fiume della città, poi l’operaio in una fabbrica di birre in bottiglia, ma la vera meta è la Baia di Monterey in California, dove finalmente i marettimesi potranno sentirsi a casa e esercitare la loro arte: la pesca.
A Monterey è il fiorire della fortuna, lavoro a volontà e pesce in abbondanza portano un certo benessere, il ricongiungimento delle famiglie e l’industrializzazione della conservazione sotto sale delle sardine, mettendo a frutto un’arte antica dei marettimesi. Saranno infatti i primi a cominciare le attività delle cannery, protagoniste dei romanzi di Steinbeck, e ad esportare il pesce in scatola in tutto il mondo. Le donne, tra le quali Anita che raggiunse Vito, potranno non solo lavorare e rendersi più indipendenti, ma anche occuparsi della gestione economica degli affari.
Fin qui i successi e le speranze di Anita e Vito e delle altre famiglie. La nuova prospettiva di crescere negli affari e nei successi spinge la comunità marettimese d’America a sfidare con piccole barche a vela un mare ignoto e ostile, come l’Artico, per la pesca del salmone. Un mare gelido e pauroso dove “dopo tre minuti in acqua si muore”. Ma tutto è scritto nel mare, che è il viatico e il destino non solo degli isolani, ma anche dei popoli che oggi, con diverse e assai minori fortune, lo attraversano.
Due voci fuori campo: “I pescatori sanno che il mare è pericoloso e la tempesta terribile. Ma non hanno mai trovato in questi pericoli una ragione sufficiente per rimanere a riva”.
Era scritto sul mare tratta in modo essenziale, quasi sussurrato, l’epica vicenda della comunità marettimese, addolcendola attraverso la vicenda sentimentale di Vito e Anita, secondo la regia di Giuliana Gamba, che cura anche soggetto e sceneggiatura con Marta Chiavari. (Gamba dal 2001 fa parte della Fondazione Cinema del Presente, e fa parte, in qualità di socio fondatore, delle Giornate degli Autori, sezione della Mostra del Cinema di Venezia).
Le musiche originali di Valerio Vigliar, molto efficaci, riescono ad aggiungere una chiave di lettura con sensibilità contemporanea a un romanzo storico, che a oltre un secolo di distanza riesce a toccarci. “E come se il mare ci tenesse per mano, il mare ci unisce” volendolo dire con le parole di Anita. La fotografia è di Paolo Ferrari, montaggio di Patrizia Penzo, la produzione è di Luce Cinecittà.
Non è ancora prevista una data di uscita in sala in Italia, ma è auspicabile che questo documentario possa raggiungere anche il pubblico americano, un tassello in più per ricostruire le storie dei nostri antenati.