I film di Michelangelo Frammartino sono caratterizzati da una generale scarsita di dialoghi, lasciando alle immagini e alle didascalie il saggio compito della narrazione. Non fa eccezione il Buco, realizzato dopo undici anni da Le quattro volte e proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia dove ha vinto il premio Speciale.
Un film dove non tutto è sempre intuitivo. Le inquadrature sono spesso lunghe sia nel senso della durata che dello spazio. Le storie sono dettagli da cogliere in un panorama più ampio. C’è una visione magica e profondamente meditativa dell’universo che emerge.
In una Calabria ancestrale, il Buco è profondo. Letteralmente. In una delle scene più incisive un notiziario mostra un intrepido reporter televisivo che scala il lato di un moderno edificio nel 1960 che diventerà il più alto d’Europa. Si tratta del grattacielo Pirelli, vanto dell’Italia del boom economico. Se da un lato c’è un Nord che avanza per raggiungere le altre capitali europee, dall’altro un Sud dal paesaggio immutato dove un gruppo di speleologi si avventurano nelle profondità dell’Abisso del Bifurto.
La storia, così com’è, procede come un documentario ma allo stesso tempo ci sono elementi di finzione, nella migliore delle ipotesi ricreazioni. La fotografia del film, curata dal grande Renato Berta, segue la squadra di speleologi che pianta le tende e inizia ad esplorare la caverna. Trova anche la bellezza pittorica sottoterra, usando il lampo dorato delle torce per illuminare le pieghe della roccia, dandoci un senso delle dimensioni che ispira timore reverenziale. Nel frattempo l’anziano contadino si ammala gravemente e giace in punto di morte, accudito dai compagni. Man mano che gli scienziati vanno sempre più in profondità, fino a toccare il fondo, il suo respiro diventa sempre più leggero, fino ad esalare l’ultimo respiro. Un film che è espressione massima del cinema poesia.