La scuola cattolica di Stefano Mordini, presentato Fuori Concorso nella 78ma edizione del Festival di Venezia – è un pungo nello stomaco. Un racconto lucido su una delle pagine più nere della storia del nostro paese. Era la notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975, tre ventenni Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira – il più grande dei tre, fanatico di Jacques Berenguer, capo del Clan dei marsigliesi – violentano e massacrarono in una villa del Circeo, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti; quest’ultima si salvò miracolosamente, fingendosi morta. E i corpi furono ritrovati nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca in viale Pola da un metronotte.
Stefano Mordini porta sul grande schermo uno dei più efferati crimini dell’epoca, rimanendo fedele all’omonimo libro di Edoardo Albinati da cui è tratto il film. Lo scrittore – premio Strega – che ha frequentato la stessa scuola dei tre protagonisti del delitto è anche la voce narrante della storia. Nel ricco cast tra gli altri, Benedetta Porcaroli, Giulio Pranno, Riccardo Scamarcio, Valentina Cervi, Valeria Golino e Fabrizio Gifuni.
Siamo negli anni ’70 all’Istituto privato San Luigi, frequentato da soli ragazzi con famiglie da troppo tempo assenti. Impegnate a gestire i problemi come se fossero polvere da nascondere sotto il tappeto o da risolvere con il denaro. Sono figli della borghesia romana che non comunicano, né mostrano quello che veramente sentono. Perennemente confusi e arrabbiati tra crisi dei valori ed esplosione della violenza non solo politica. Istruiti seguendo i valori cristiani che rinnegano apertamente sono chiusi nei loro gusci cercando di diventare adulti. Educati con tre precetti: persuasione, minaccia e punizione. Una generazione che ha il mito del maschio alpha e il desiderio di sottomettere il femminile, espressione atavica di un impulso predatorio e distruttivo. Tra riti di iniziazione, violenze, risse e atti di bullismo sono pronti a fare di tutto per entrare nel branco e farsi accettare. E l’aggressività è una minaccia pronta ad esplodere ogni secondo.
Il regista ripercorre con una narrazione priva di giudizio e una regia attenta ai dettagli che gioca sull’alternarsi di passato e presente, i sei mesi prima del delitto. La quotidianità silenziosa e quell’irrefrenabile attrazione per il male («amici della morte, amici della morte», ripeterà in macchina Angelo Izzo dopo il massacro). Sotto i riflettori le distorte vite dei ragazzi, immersi in un microcosmo perverso. Li osserviamo nel rapporto con gli insegnati, la religione, la scoperta del sesso, il senso dell’amicizia e i tradimenti. “Nascere maschi è una malattia incurabile” viene detto nel film. Una frase riportata dal romanzo che allude alla natura stessa dell’uomo, dove la violenza è radicata fin dalla nascita. «Sopraffare o essere sopraffatti?» Si chiede uno di loro. Ma una scelta è sempre possibile. Quella che alcuni di loro non fanno.
Stefano Mordini cerca di raccontare cosa ha scatenato tanta cieca violenza in quelle menti esaltate, senza spettacolizzarla. Lasciando, però, lontano il contesto politico che lo ha generato che viene solo accennato attraverso le note del brano La collina dei ciliegi di Battisti. «Abbiamo eliminato i riferimenti al fascismo e alla droga perché per noi era importante prendere quel racconto e identificarlo in quello del maschio che usava e vedeva la donna come un oggetto. In quegli anni il delitto del Circeo generò un dibattito. Lo stesso Pasolini sottolineò che quella violenza non era solo appannaggio della borghesia ma anche nella borgata. Volevamo portare attenzione al tema dell’impunità. Portare quella storia all’oggi e far diventare quella responsabilità di tutti».
Nessun rimorso nel massacrare due ragazze di estrazione sociale inferiore, residenti in un quartiere di Roma Sud, a nome di una loro presunta superiorità di classe. «Al processo, i due autori del delitto che sono stati arrestati (il terzo ha vissuto tutta la vita da latitante) hanno dato motivazioni vaghe, deliranti: “Lo abbiamo fatto perché era arrivato il momento di dare un segnale.” “Dovevamo far capire che eravamo ancora vivi.” “Non potevamo starcene con le mani in mano.” Ho pensato spesso a queste frasi, durante le riprese, ma per la ragione opposta a quella degli assassini. Penso che il cinema sia un’arte straordinaria perché può aiutare a evadere, a immaginare la storia in altro modo, a riflettere su quello che è accaduto o a tenere alta l’attenzione» ha aggiunto il regista de “Gli Infedeli”. E ricorda nei titoli di coda del film che grazie alle battaglie della sopravvissuta al massacro, oggi lo stupro è diventato un reato contro la persona e non solo contro la morale pubblica.