Presentato in anteprima mondiale alla 38esima edizione del Torino Film Festival, l’esordio al lungometraggio del regista iraniano Kaveh Mazaheri, racconta l’odissea di due sorelle, Akram e Azar, che vivono col fratello Emad in una tenuta nei sobborghi di Tehran. Akram, la sorella maggiore, è autistica e deve subire spesso i soprusi e carenza affettiva di un dispotico e ambizioso fratello. A mantenere la famiglia è Azar, impiegata in un centro di chirurgia estetica; nel frattempo, un ingegnere amico di famiglia propone alla donna di trasformare la loro serra in una piantagione di funghi allucinogeni, progetto che trova la ferma opposizione di Emad. Quando, dopo l’ennesimo insulto da parte di suo fratello, Akram scaraventa giù Emad dal tetto della serra in costruzione con un calcio, le due sorelle sono costrette a far sparire il cadavere. Akram e Azar raccontano a tutti che Emad è fuggito in Germania. Con il tempo la bugia diventa sempre più insostenibile, specie per Akram, sempre più distaccata dalla realtà e per questo imprevedibile.
Il thriller di Mazaheri al limite dell’horror cerca di capire l’Iran addentrandosi in diverse trame, fatte di fili intrecciati intorno a due temi cruciali la disabilità e la condizione femminile. Capire l’Iran vuol dire anche affrontare questioni più profonde e intricate, spesso poco comprensibili a noi occidentali e trascurate nelle valutazioni, quali l’imposizione del velo, l’identità religiosa, i retaggi della Rivoluzione islamica nella società, la lotta quotidiana delle donne per le libertà, le proteste per l’emancipazione femminile, la ricerca di un equilibrio tra antiche e radicate tradizioni e diritti civili.
Botox si concentra in particolare sulla figura di Akram, interpretata da Susan Parvar, celebre in Iran per la partecipazione a molte commedie seriali televisive. Rispetto alla più emancipata Azam, giovane e bella, la donna è bisognosa di cure ma è comunque costretta a lavori faticosi. Affronta discriminazioni, abusi e per i suoi familiari rappresenta un ostacolo alle rispettive aspirazioni sociali. Una fotografia fredda e grigia mette in primo piano, come in generale tutto il cinema medio-orientale, l’indagine accurata, profonda e spietata dei suoi personaggi.
È così che con lo scorrere del tempo il senso di liberazione di Aktam si trasforma lentamente in senso di colpa, in ossessione. Il ricorso ai primi piani è scelta e strumento efficacissimo allo scopo, caricando le scene anche della giusta suspense. Non c’è nessuna indulgenza né per le situazioni socio-economiche entro le quali si muove lo script, né per i tratti psicologici dei protagonisti, irrequieti per la loro voglia di riscatto assoggettata a leggi “antropologiche”tutt’altro che infallibili e razionali.
Una black comedy che parte dallo slapstick per scivolare verso un finale surreale e imporre una severa riflessione sul concetto di doppio e del sottile confine che separa la verità dalla menzogna.