Il primo film italiano in concorso a Venezia 77 di una regista donna, Susanna Nicchiarelli, ha fatto finalmente la sua passerella qui al Lido. Susanna è una regista già ben nota al pubblico italiano ed anche internazionale. Nel 2009 dirige il suo primo lungometraggio, Cosmonauta, Premio Controcampo alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nominato ai David di Donatello come miglior film d’esordio. Seguono La scoperta dell’alba (2013), e Nico, 1988 (2017), Premio Orizzonti Miglior film alla Mostra di Venezia, vincitore di numerosi premi internazionali e di 4 David di Donatello (tra cui quello per la migliore sceneggiatura originale). Non stupisce quindi che per questo ritratto di donna scelga un cast internazionale, sia davanti che dietro la macchina da presa. E fa bene, perchè il film, seppur lento e a tratti inceppato nei meccanismi, ci restituisce, attraverso il bel volto di Romola Garai, il ritratto di una donna brillante, colta, libera e appassionata.
Eleanor è la figlia più piccola delle tre di Karl Marx: tra le prime ad avvicinare i temi del femminismo e del socialismo, partecipa alle lotte operaie, combatte per i diritti delle donne e l’abolizione del lavoro minorile. Quando, nel 1883, incontra il commediografo Edward Aveling, la sua vita cambia per sempre, travolta da un amore appassionato ma dal destino tragico.
“La storia di Eleanor Marx – afferma la Nicchiarelli – con la sua apparente incongruenza tra dimensione pubblica e privata, apre un abisso sulla complessità dell’animo umano, sulla fragilità delle illusioni e sulla tossicità di certe relazioni sentimentali. Raccontare la vita di Eleanor vuol dire parlare di temi talmente moderni da essere ancora oggi, oltre un secolo dopo, rivoluzionari. In un momento in cui la questione dell’emancipazione è più che mai centrale, la vicenda di Eleanor ne delinea tutte le difficoltà e le contraddizioni: contraddizioni, credo, più che mai attuali per cercare di “afferrare” alcuni tratti dell’epoca che stiamo vivendo”.
La cosa assolutamente più interessante del film è proprio questa ambigua sopportazione della donna di una vita privata affianco ad un uomo che non la ama, le mente e la tradisce, e delle sue battaglie nella vita pubblica per la giustizia, la verità e l’uguaglianza.
Ci è piaciuta molto la scelta qui di usare la musica, specie quella punk rock americana, per sottolineare i vari passaggi di un film che a tratti diventa manierista e nel finale invece si libera di una certa gabbia per restituirci una Eleanor finalmente viva, autentica, rabbiosa e danzerina. Ormai consapevole delle sue scelte e concretamente capace di assurmesene le conseguenze. La donna infatti morirà suicida, purtroppo. Ci sarebbe piaciuto anche qui un finale capovolto, magari un Edward Aveling suicida, ma osare così tanto da cambiare i finali alle storie vere per ora non è cosa, il solo Tarantino può permetterselo (ricordate c’era una volta ad Hollywood?).
“È per via dell’attualità di questa storia – continua la regista – che ho cercato di allontanarmi dai film di tradizionale ambientazione ottocentesca. La mia idea era di affrontare il genere del film storico e in costume lavorando sui cliché di queste narrazioni fino a capovolgerli. Nei contenuti, volevo raccontare tutto tranne la storia positiva ed edificante di un’emancipazione: volevo invece decostruire le contraddizioni profonde di questa narrazione. Nella forma, a partire dall’uso della musica, volevo “tradire” la rappresentazione del XIX secolo a cui siamo abituati. A cominciare, per esempio, dall’immagine stereotipata del “povero” ottocentesco, sempre un po’ fasulla e rassicurante. Ho cercato di tenere le immagini degli operai come uno sfondo sfocato e confuso, tranne in alcune rarissime occasioni in cui Eleanor vede veramente la tragedia collettiva che le si consuma attorno. Le maggior parte delle immagini della povertà che richiamano la tragedia che si consumava nelle fabbriche di quegli anni (tragedia che si consuma ancora oggi, con modalità molti simili anche se – in luoghi diversi) sono quelle d’archivio, e quindi reali”.
Parlaci dell’uso della musica.
“La musica è stata sostanziale per l’individuazione del tono del film. Come già in precedenza, ho fatto le mie scelte musicali in fase di scrittura, scegliendo per alcune situazioni di usare la musica dei Downtown Boys, un gruppo punk rock americano contemporaneo che si definisce “comunista” (un loro album si intitola proprio Full Communism): ho pensato che la trasgressività di questa band avrebbe aiutato a potenziare le immagini astraendole dal tempo dell’ambientazione e avrebbe portato all’occorrenza anche un distacco ironico dalle vicende più drammatiche. I Downtown Boys hanno arrangiato per il film anche una loro versione de L’Internazionale in francese. Ho inserito anche brani di musica classica, prevalentemente Chopin ma anche Liszt, che servivano da commento romantico ma anche ironico delle vicende sentimentali, rifatti dai Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo, il gruppo con cui lavoro fin dai tempi di Cosmonauta”.
La conclusione è che ragione e sentimento, anima e corpo, emozioni e controllo, romanticismo e positivismo, femminilità e mascolinità, tutte queste contraddizioni sono le stesse dalla notte dei tempi e quindi anche in questo film non possono che restare irrisolte e irrisolvibili.