Partiamo da un presupposto generale: il cinema d’inchiesta è soporifero e lento. Lo è sempre stato, in ogni pellicola prodotta e non può essere altrimenti, perché si ostina a cercare di “raccontarci la verità”. E la verità è noiosa e ostica.
Allora perché insistere a propinarci questo genere di film?
Ecco, se per caso fosse questo uno dei pensieri che avete o se, peggio, lo sentite dire a qualcuno all’uscita del film sappiate che mai giudizio fu più sbagliato.
Infatti, esiste da sempre un filone intero di cinema d’inchiesta, in particolare sui crimini commessi contro l’ambiente (e contro noi stessi): film come “A civil action” con John Travolta, passando per “Insider” con Russell Crowe, fino a “Erin Brockovich” interpretata magistralmente da Julia Roberts per citarne alcuni che hanno fatto la storia del cinema.
Perché di film del genere ce n’è bisogno eccome, e anche di “eroi” banali e imperfetti come il protagonista Robert Bilott che, in molti tratti, ricorda il tenente Colombo.
Bilott, è un avvocato che guida un auto grigia che, come unica nota di colore ha un arbre magique blu sullo specchietto. Intorno a lui paesaggi cupi e diafani della West Virginia che poco hanno a che fare con le parole della celebre canzone “Take me home, country roads” di John Denver, che echeggia in sottofondo e la descrivono come un “quasi paradiso”.
Suo malgrado l’avvocato diventa un improbabile attivista, denunciando i pericoli causati da una sostanza chimica che contamina da anni l’acqua utilizzata da una comunità rurale sul fiume Ohio. “Avevo letto l’articolo del New York Times su questa faccenda e questo avvocato. Ho pensato fosse una storia che doveva essere raccontata” ha raccontato Mark Ruffalo.
Perché la storia è vera, purtroppo, e riguarda la multinazionale chimica DuPont che, per decenni, ha responsabilmente e consapevolmente inquinato con il Pfoa (con cui si produceva il teflon delle pentole antiaderenti, per intenderci) le falde acquifere della cittadina di Parkersburg in West Virginia, dove su 30mila abitanti oltre un terzo ha avuto un tumore o, tra i nuovi nati negli ultimi 40 anni, un’alterazione genetica.
A portarla sullo schermo, nelle sale italiane da giovedi, proprio l’Hulk – Mark Ruffalo che, oltre ad essere tra i produttori (insieme a chi ha realizzato “Green Book” e “Il caso Spotlight”, guarda un pò…), interpreta proprio Robert Bilott ossia l’avvocato che, nella realtà, con grande determinazione è stato capace di far emergere il caso, dopo oltre 15 anni di battaglie (e soprusi subiti, perché fare i “buoni” costa eccome), anche grazie ad una partecipazione collettiva di quasi 70mila persone (la più grande mai fatta) che volontariamente si sono sottoposte ad accertamenti diagnostici.
“La cosa che mi ha colpito di più di tutta la storia è stata la reazione degli abitanti della zona che, pur morendo di cancro e vedendo nascere i figli deformi, continuavano a stare dalla parte dell’azienda che gli dava lavoro. Che mondo è quello in cui la gente è costretta a decidere se morire di cancro o morire di fame perché senza lavoro?” segnala Ruffalo.
Nel suo intercedere, il film ci mostra gli anni di difficoltà che un semplice cittadino è chiamato a vivere se prova a mettersi contro “il sistema” e le sue assurdità. Vale per l’avvocato come per l’allevatore di bestiame, che per primo segnala il problema: “Forse io e te non riusciamo a capirlo, ma l’azione che ha intrapreso non è un fallimento” dice la moglie dell’avvocato, interpretata da Anne Hathaway rivolgendosi al capo dello studio legale (Tim Robbins, a confermare un cast di tutto rilievo che certo non lavora per l’Oscar, ma sostiene bene la credibilità del copione) quando il marito finisce in ospedale logorato dai continui rinvii, dalla sfiducia intorno e dalle pastoie burocratiche.
Detta così, si comprende perchè Ruffalo abbia deciso di proporre la storia: “Tutti noi dovremmo essere in grado di poterci fidare del sistema su cui si basa la società in cui viviamo e che nasce da un compromesso: i cittadini rinunciano a parte della loro libertà individuale in cambio di una serie di servizi. Tra questi ci dovrebbe essere la possibilità di vivere in un ambiente sicuro; quando questo non avviene è il fallimento totale del patto sociale in cui abbiamo deciso di vivere”.
Effetti? Quelli reali parlano di oltre 670 milioni di dollari versati dalla DuPont per le 3500 vittime accertate e con la società chimica che, in ogni caso, ha sconfessato il racconto dei fatti, così come messo in scena dal regista Todd Haynes. Intanto nella zona i morti si continuano a sotterrare, le deformità dei nascituri restano altissime e il colosso chimico non è stato nemmeno scalfito.
Ecco allora spiegato il motivo per cui vale la pena apprezzare un film verità a suo modo “noioso”: perché il cinema non deve mai perdere la sua capacità di denuncia sociale. “Certi abusi di potere e illeciti guidati dall’avidità e dal profitto possono essere fermati solo se l’opinione pubblica ha le necessarie informazioni e può farsi un’idea di quello che accade” chiosa Ruffalo.
Già, tutto il mondo dovrebbe sapere, ma a quale prezzo?